Gianni Riotta: Voci dell'America neocon

21 Giugno 2004
Quando Harry Potter avrà 50 anni il suo ciuffo, gli occhialini e la faccia tonda e stupita da eterno fanciullo saranno identici a quelli del signore che chiacchiera di pace e di guerra, morte e vita, con in mano un bicchiere di Pinot grigio.
Di là dal giardino, in una villa che per riserbo non si può identificare, uomini politici e d'affari discutono tra le tartine di un cocktail. Douglas Feith, sottosegretario alla Strategia politica del Pentagono con il ministro Donald Rumsfeld, li ignora, concentrato su una sola idea, sbaragliare i nemici, con la foga con cui Harry Potter esorcizza la sua nemesi, Voldemort: "La guerra al terrorismo ha tre fasi. Primo, scompigliare le file dei terroristi. Secondo, proteggere il suolo domestico. Terzo, smantellare l'ideologia che genera i terroristi". Una battaglia di idee. Altri ministri di George W. Bush parlano di missili, alleanze con il pakistano Musharraf e tensioni con il francese Chirac.
Per Douglas Feith, seguito da un capitano di marina in borghese, consigliere e angelo custode, saranno le idee a vincere, o perdere, la guerra al terrorismo. "Sul punto tre, battere l'ideologia dei terroristi, come riuscimmo con Mosca durante la Guerra Fredda, siamo in difficoltà. Gli abusi nel carcere di Abu Ghraib sono stati una sconfitta terribile. E mi fa paura vedere vacillare il consenso degli americani sulla guerra in Iraq. Una democrazia non può combattere, se il fronte interno non è solido. C'è un punto che non riusciamo a far comprendere, né negli Stati Uniti né in Europa. La sola sicurezza in Medio Oriente, la chiave della pace nel mondo arabo, è la democrazia. Solo quando quelle società saranno stabilizzate da valori democratici, orrori e ingiustizie svaporeranno". Difficile non essere d'accordo, se dittatori e oligarchi cedono il posto a leader rispettati dall'opinione pubblica vivremo meno violenza e più dialogo. È però il filo con cui Douglas Feith tesse la sua strategia a creargli legioni di nemici. Il generale Tommy Franks, comandante dell'attacco a Saddam Hussein nel 2003, dice al giornalista Bob Woodward: "Feith è il più fot... stupido sulla faccia della terra".
In giro per Washington il falco neoconservatore Douglas Feith viene descritto con la faccia da Harry Potter sì, ma il cuore nero di Voldemort, genio del male. Arrivato per lavorare con il senatore democratico Henry Jackson, Feith è figlio di Dalck Feith, un filantropo repubblicano, attivo nel partito filosionista Betar, da cui nascerà il Likud di Begin e Sharon. I Feith sono paladini dei coloni israeliani, che Douglas, avvocato e lobbysta, difenderà in tanti fori internazionali. Le posizioni radicali stridono con il garbo, e la precisione da seminario di alti studi strategici, con cui le articola: no al trattato sui missili balistici del 1972 e alla convenzione contro le armi chimiche e biologiche, al punto da difendere, come legale, le lobbies missilistiche Lockheed-Martin e Northrop Grumman.
Tra Israele e palestinesi, Feith non fa sconti: lo Stato palestinese c'è già, la Giordania, gli accordi di Oslo e le trattative tra Rabin e Arafat hanno indebolito Israele cedendo i territori sacri di "Giudea e Samaria". Dopo una vita all'attacco, a Feith si imputano adesso tutti gli errori della guerra in Iraq. Secondo il ‟Washington Times” sarebbe stato lui - e Feith-Harry Potter sgrana gli occhi, incredulo, mentre gli elenco le critiche - a convincere Bush sulle armi di sterminio di massa di Saddam. Il suo ufficio al Pentagono, "arrivo alle cinque del mattino e me ne vado alle venti: non resta nulla per la famiglia", era responsabile per la direzione delle carceri in Iraq e contro di lui punta la caccia al capro espiatorio dopo Abu Ghraib. Secondo il ‟Chicago Tribune”, quando gli hanno chiesto di applicare la Convenzione di Ginevra, Feith ha sbuffato "quelle regole lì difendono i terroristi". Secondo il mensile ‟Atlantic” sarebbe stato proprio Feith a coccolare il dissidente iracheno Ahmed Chalabi, oggi in disgrazia per le false informazioni sulle armi, escludendo la Cia e il Dipartimento di Stato, assai scettici, dalla stesura del piano di battaglia. Paziente, come un professore davanti ad allievi volenterosi ma tardi, Feith spiega: "Non mi hanno neppure informato della perquisizione all'ufficio di Chalabi. Io mi occupo di strategia e politica, non di dettagli. Capiamoci, per favore: sulle armi, né il presidente Bush, né il premier inglese Blair hanno mentito. Sono stati male informati, qualcuno ha mentito a loro.
Le dimissioni di Tenet dalla Cia? Hanno a che fare con la qualità dell'intelligence prima della guerra? Il dibattito politico è corrosivo e questo non aiuta durante un conflitto. Ricominciamo, allora. Saddam era un pericolo strategico? Lo dirà la storia, adesso è troppo presto. Aveva legami col terrorismo? Si dibatte di Zarqawi e Al Qaeda, io sto ai fatti: ospitava Abu Nidal e Abu Abbas, quello della Lauro, e pagava 25.000 dollari di premio alle famiglie dei kamikaze terroristi palestinesi. Giudichiamo a rovescio: sono più sicuri mondo e Medio Oriente senza Saddam? Sì. Il resto tocca al futuro. Il vero problema di Bagdad non va mai in prima pagina. È la riluttanza degli iracheni a farsi carico della loro vita, della gestione quotidiana del Paese. La dittatura li ha disabituati, temono di esporsi. Poi c'è la sicurezza, ma io spero si arrivi presto a una forza multinazionale diretta da un generale americano. La Nato? Non ci conto, potrebbe però far di più in Afghanistan, dove invece non manda neppure gli aiuti promessi". La ricostruzione però è scossa dalle autobomba. L'Iraq di speranza dell'estate scorsa è paralizzato nel sangue. Feith posa il bicchiere di Pinot, stringe le labbra, medita l'equazione con troppe incognite, poi parte a risolverla: "Abbiamo cambiato la valuta di Saddam e non ci sono state speculazioni. Gli ospedali funzionano. Malgrado gli agguati, la produzione di petrolio è a regime. Le scuole sono riaperte, i libri di testo emendati dalla propaganda Baath. Le elezioni stanno arrivando, manca il censimento, votare con le tessere annonarie, assegnate al capofamiglia, escluderebbe le donne. Nessuno ha incendiato i pozzi. I curdi non hanno dichiarato la secessione e sono fattore democratico principale. "La Turchia non ha invaso ed è partner autorevole. Sa cosa mi dice scherzando Rumsfeld? "Diavolo Doug, abbiamo fatto tutto questo senza un piano, pensa cosa saremmo riusciti a fare se ne avessimo avuto uno!". Battute a parte, la sicurezza resta problema serio. Non che l'Iraq possa essere la Svizzera domattina, ma devono esserci progressi presto". Se chiedete "come?" vi scontrate con la "lotta al caos", la persuasione strategica che fa da base teorica al piano dei neoconservatori, irrisa come imbelle dagli intellettuali alla Michael Moore, ma compresa a fondo da pochissimi, amici e nemici che siano. "Noi ragioniamo sull'incertezza. Non crediamo ai piani che prevedono il futuro e provano ad anticiparlo. Siamo coscienti dei limiti della nostra intelligenza e della nostra conoscenza. Non c'è un piano di ricostruzione dell'Iraq a tavolino, sarebbe artificiale, ma dire che abbiamo creduto a Chalabi come dei fessi è una fesseria. Le formule a priori non funzionano. Se io vedo che a Falluja la stabilità torna dopo l'accordo con le tribù, faccio l'accordo con le tribù. Ci accusano: non avete catturato Osama Bin Laden! Rispondo: mica perché non ci proviamo. La questione è riallineare le forze in campo". Feith sta da tempo studiando le carte con le basi militari dell'impero romano, "erano dislocate in modo assai più ragionevole delle nostre per proteggere i confini e fronteggiare il nemico. Noi siamo ancora in trincea come nella Guerra Fredda. Dobbiamo far tutto da capo, con gli amici e gli avversari.
Sa cosa vorrei dall'Europa? Assumetevi più, non meno responsabilità. Siamo divisi da scelte politiche, lo so, ma uniti da valori comuni. Allora prendetevi più carico nel mondo, nei fatti. La mia paura è veder dividersi l'intesa atlantica, con Russia magari, o Cina, che scelgono il partner più favorevole del momento. Un imperdonabile errore strategico".
Mister Feith, lei è ritratto come un mostro sanguinario: quando torna a casa, la sera tardi, cosa le chiedono i suoi figli. "I figli?" come ogni papà americano il sottosegretario alla Strategia del Pentagono, falco neocon avversario di ogni distensione, trae fiero dal portafogli le istantanee a colori dei ragazzi, teenager sorridenti. "Mi chiedono, ma è vero? Vogliono essere rassicurati. Spiego loro la sfida in corso, la nostra credibilità è scossa in Medio Oriente ma se la Libia ha finalmente rinunciato al suo programma di armi vietate è grazie a noi. Ricordo che dobbiamo essere umili, l'umiltà non è una debolezza ma virtù utile a evitare errori, ci scampa dall'arroganza che offusca le menti razionali. Quanto alle teorie dei complotti, con me o no al centro, veda, la verità è difficile da cogliere in questo tragico momento. Molto più facile immaginare un complotto rassicurante, dove i cattivi siamo sempre noi". Così pensa il neoconservatore più stimato e detestato, persuaso che l'audacia, non la prudenza, sia l'arma giusta per fronteggiare il caos, costi quel che costi. Capirne le contraddizioni, l'angoscia risolta in temerarietà, spiega meglio di tanti pamphlet ornati di viva e abbasso dove va e come pensa, l'America di George W. Bush.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …