Gianni Riotta: Il Novecento in un corpo

06 Luglio 2004
Muore con Marlon Brando il Novecento che abbiamo conosciuto, aperto dal lampo di Hiroshima nel 1945, chiuso dal lampo del World Trade Center a New York nel 2001. La vita di Marlon Brando è durata ottant’anni, ma la carriera premiata con due Oscar ha illustrato la sensualità, la disperazione, le utopie e i rovesci di cinquanta anni tra desiderio e orrore. Un tram che si chiama desiderio e Apocalypse Now, i due film ai capi dell'arte di Brando, hanno lo stesso tema, la società che schiaccia l'individuo, lo aliena, ne massacra pulsioni e istinti. Il singolo però non scende nel gorgo muto, come temeva Cesare Pavese. Si ribella, si rivolta, come predicava Albert Camus. A tutti coloro che hanno avuto la forza di ribellarsi ai gorghi del conformismo e ribadire la propria originalità, Brando offre la sua maschera. Il ghigno, il silenzio, le righe del copione mormorate e non pronunciate, come a vergognarsi dell'arte di recitare. "Fare l'attore - disse in una rara intervista al ‟New Yorker” in cui non se la prese con il reporter ma accettò il dialogo - è l'arte più sopravvalutata. Ognuno di noi recita, ogni giorno, quando vuole qualcosa, e prova ad ottenerla parlando". È vero, ma Brando aveva la forza di assumere sul suo corpaccione, che la mano del tempo aveva deformato dal fascinoso giovane in maglietta bianca e blue jeans al vecchio calvo e obeso, tutti i tentativi di seduzione, compromesso, corruzione, preghiera, solitudine e silenzio che ognuno di noi conosce un giorno nella vita. Era il corpo del Novecento chiuso nella Guerra Fredda. Voleva dimostrare che non tutto si esauriva nel fronteggiarsi nucleare di nemici, che l'orrore, la cui ubiquità aveva narrato chiudendo Apocalypse Now con le righe di Conrad da Cuore di tenebra, non è esito senza scampo. La criminalità sanguinosa del Padrino, la naturalezza di Stanley Kowalski del Tram chiamato desiderio fino all'erotismo ossessivo di Ultimo tango a Parigi, capolavoro di Bernardo Bertolucci: in ogni parte Marlon Brando recita un capitolo diverso della stessa epopea. Non era un bravo attore, ma il più bravo degli attori. Quello che tutti gli altri hanno imitato, non per piaggeria, ma come gli artigiani rifacevano i modi nobili di Michelangelo e i vezzi di Bernini. Da Paul Newman a Leonardo Di Caprio, Brando è stato il maestro di tutti. Oggi leggerete nei necrologi di ricordi del metodo Stanislavsky, dell'Actors'Studio con Lee Strasberg. Verissimo, Brando attinse a quelle scuole. Solo però per corroborare la sua personalità e il suo metodo privato. Far vedere come l'uomo solitario si batte con il potere, le vittorie effimere, la frustrazione perenne che ne risulta. Brando conobbe nella vita la tragedia, il figlio coinvolto nella morte di un amico della figlia, drammi familiari, un patrimonio a rischio. Accettò parti che i critici ricordano con sdegno, ma che lui prese come croci leggere, che non richiedevano davvero un sacrificio. Erano danni alla sua reputazione da attore, sporcavano la voce che le enciclopedie dedicheranno alla sua vita. Non intaccano il corpus che Brando andava delineando. Un'opera nitida, manuale di resistenza contro l'omologazione. Dal Fronte del porto al Vietnam di Coppola, gli eroi perduti di Brando trovano, come Sisifo, la loro identità non nell'esito della battaglia, vinta o perduta, ma nell'accettare di combatterla. Alla nascita del Novecento ideologico, nella grande tela Guernica di Pablo Picasso, sta quella spada spezzata del guerriero spagnolo vinto, al vertice in basso del quadro. Ogni volta che Brando è apparso davanti a una cinepresa non per raccattare il soldo di giornata, ma per recitare, quella spada è stata impugnata ancora, ancora ha combattuto e ancora s'è spezzata nel suo sorriso infelice - Tornate a quella cinica frase, che sembra tratta dal grande Luigi Pirandello: "Non è fatica recitare, tutti noi lo facciamo ogni giorno". Disprezzando l'arte, Brando l'affermava. Perché la sua vita era il personaggio, il cuore lacerato dell'esistenza. Solo Orson Welles ebbe la sua coerenza e la sua dialettica nel recitare, mutare ruolo e confermarsi persona. Welles però tenne fermo il sorriso, un ghigno che poteva essere diabolico, ma che forse dissimulava una speranza. Non Brando: a Brando si addiceva l'aggettivo di "virile", perché non dava alternative, vivere la propria condizione senza scarti, essere se stessi senza lasciarsi modificare dalla realtà. Sopraffare sì, dall'assurdo intorno a se, ma senza rinunciar alla propria umanità. Il conformismo che la sicurezza richiede, ieri con l'America nucleare di Eisenhower oggi con la lotta al terrorismo di George W. Bush veniva alle mani con la virilità di Brando e con la forza dei suoi personaggi. La Parigi a tinte violente che Bertolucci costruisce per lui e la ninfa Maria Schneider, è l'ultimo campo di battaglia della resistenza all'ordine del caos. Il regista italiano propone, in chiusura dell'esplosione anni Sessanta, uno scontro risolutivo tra Eros e Tanatos, amore e morte. L'ossessione erotica può guarire dall'assurdità di un Occidente dove i ruoli sono ormai scanditi per tutti? L'esito stesso del film mostra la verità che ogni lettore di Casanova e ogni ascoltatore di Don Giovanni conosce: non c'è salvezza nell'Eros, ma una brevissima, bruciante felicità, identità che altrimenti non si ottiene. Brando assunse su di sé il peso di far da coscienza al pubblico, di non coltivarne vizi e passioni, ma di richiamarlo sempre a uno sforzo di maturazione. Vanitoso denunciava con una smorfia il narcisismo. Egoista mostrava con un brontolio la povertà dell'egoismo. Solitario implorava con i silenzi solidarietà. Se ne è andato, ha chiuso il guardaroba con le t-shirt, i jeans a borchie, le robe del Selvaggio, il doppiopetto e le camicie del Padrino, il paletot cammello dell'Ultimo Tango. Il novecento è finito, e nel XXI secolo non c'è nessuno che ci incoraggi con un ghigno, incalzandoci verso un futuro drammatico, illudendoci giorno dopo giorno che "come se l'è cavata Brando sullo schermo me la caverò io oggi nella vita".

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …