Marco D'Eramo: La Convention degli strappi

27 Luglio 2004
Infine l'inizio! Questa notte, troppo tardi per riferire i contenuti dei discorsi, si è aperta nella capitale del Massachusetts la Convention democratica 2004. Al di là dell'esotico nome "Convention", si tratta di una riunione di apparato, vero e proprio "Congresso di partito": da noi si elegge il segretario e la direzione, qui il candidato presidenziale. Ma le manovre di corridoio sono le stesse e, come nei nostri congressi, l'essenziale si svolge dietro le quinte. In questo caso poi, è scontata la nomination del senatore del Massachusetts, John Kerry, candidato alla presidenza, e del senatore della North Carolina, John Edwards, alla vicepresidenza. Il problema della Convention perciò è come sfuggire all'ovvietà e appassionare i distratti statunitensi, tanto più che i grandi network dedicano sempre meno ore alla diretta. Non solo: nel meticoloso cerimoniale delle Conventions, quest'anno i democratici hanno estratto la carta più debole. Intanto, visto che nel 2000 l'avevano tenuta dopo i repubblicani, quest'anno gli è toccato celebrarla prima (da ieri fino a giovedì 29 luglio), e così Bush potrà calamitare l'attenzione di tutto il paese tra il 30 agosto e il 2 settembre, proprio alla vigilia dell'anniversario dell'11 settembre. Inoltre, mentre i repubblicani hanno scelto New York (città dell'11 settembre e tradizionalmente ostile a Bush), Boston era stata scelta dai democratici due anni prima che balenasse la possibilità che il candidato fosse proprio un senatore del Massachusetts.
Per il resto degli Stati uniti, Boston è la città altezzosa e questo non giova a Kerry, che i repubblicani si accaniscono a inchiodare alla sua immagine di "aristocratico della Nuova Inghilterra": e senza sforzarsi, basta che Kerry apra la bocca per capire la sua origine sociale, culturale e geografica.
Il più grande problema dei democratici qui a Boston però è la spaccatura crescente tra la sensibilità dei militanti di base e le decisioni politiche del vertice, come mostra un sondaggio pubblicato ieri dal ‟Boston Globe”. La spaccatura diventa un abisso per quanto riguarda la guerra in Iraq. Mentre Kerry continua a dire che nel 2002 aveva votato a favore della guerra perché era stato "indotto in errore " da Bush, già allora la base democratica era contraria alla schiacciante maggioranza dell'80% (e solo il 14% era favorevole). E mentre oggi, dopo il disastro dell'ultimo anno, Kerry si limita ad affermare che "avrebbe condotto la guerra in modo diverso da Bush", l'opposizione alla guerra nella base democratica ha raggiunto il 95%, con solo l'1% favorevole.
Il problema della Convention è perciò la pura e semplice questione della "rappresentanza politica" che si ripropone a tutti i livelli e in tutti i settori, nel cosiddetto "zoccolo duro" democratico costituito dai neri, dai sindacati, dai dipendenti pubblici. In tutte queste tre componenti dell'elettorato democratico Kerry non suscita particolari entusiasmi, anzi: è considerato molto fiacco nella difesa delle minoranze razziali; addirittura liberista per quanto riguarda il settore pubblico (fautore cioè di un apparato statale molto leggero), e troppo favorevole al Trattato di libero commercio nordamericano (Nafta) per accendere il fervore dei sindacati, da sempre ostili al Nafta accusato di incoraggiare la fuga all'estero dei posti di lavoro industriali.
In questi quattro giorni di Convention si tratterà perciò di vedere come, e in che misura, il vertice e l'apparato saranno in grado di ricucire lo strappo operato con la base. La posta in gioco è l'elezione stessa di Kerry, visto che finora la sua unica arma politica è stata solo il diffuso, profondo odio nei confronti di George W. Bush. Ma non basta l'odio a creare la mobilitazione necessaria, serve un messaggio positivo. Nel caso di Clinton, nel `92 fu lo slogan People First, "Il popolo innanzitutto". Edwards aveva tentato la carta delle "Due Americhe", quella dei ricchi e quella dei poveri. Quale che sarà il tema, è necessario che i democratici s'inventino qualcosa perché, senza un fattore di mobilitazione, non ci sarà una partecipazione al voto sufficiente a sconfiggere Bush: il fattore determinante nelle presidenziali americane è sempre l'astensionismo. Perché è vero che il 90% dei neri che votano scelgono democratico, ma una cosa è se a votare va il 60% degli elettori neri, altra se va solo il 40% perché disamorato da un candidato che non convince. Il deficit di motivazione si è visto a contrario persino nel flop della dimostrazione pacifista di domenica che ha raccolto solo 1.400 manifestanti, molti meno dei no global che nel 2000 - dopo Seattle - avevano dimostrato a Los Angeles fuori dalla Convention democratica.
In questi giorni si vedrà dunque se questo "ticket" saprà creare un impulso che inneschi l'effetto valanga, oppure se cadrà nel gioco di rimessa a cui - un po' per ragioni oggettive, un po' per fragilità - si è limitato fino ad ora. La ragione obiettiva è che il pallino ce l'ha Bush che può decidere quando, alla vigilia delle elezioni, iniziare un simbolico ritiro dall'Iraq (salvo poi mandare rinforzi il giorno dopo le elezioni), e quando tirare fuori dal congelatore Osama Bin Laden: il candidato democratico è costretto a tenere conto di tali eventualità ed è in parte per questo che deve giocare in difesa. La congiuntura d'altro lato, notava ieri il ‟Wall Street Journal”, ha prodotto una situazione strana: il tradizionale punto di forza repubblicano era la sicurezza nazionale, quello democratico la sicurezza sociale: la politica militare per il partito dell'Elefante, l'economia per il partito dell'Asinello. Le peripezie dell'ultimo anno hanno invece fatto sì che, grazie alla fragile ripresa, l'economia non sia più il cavallo di battaglia di Kerry e la guerra sia diventata il tallone d'Achille di Bush. E così paradossalmente, i democratici ora puntano sulla guerra e i repubblicani sull'economia.
Di questo groviglio hanno cominciato a discutere (in codice) ieri, alle 7 di sera ora di Boston (2 di notte ora italiana) i grossi calibri, a partire dal presidente del comitato nazionale (l'equivalente del nostro segretario generale) del partito democratico, quel Terry McAuliffe che a gennaio spazzò via in Iowa la candidatura di Howard Dean e lastricò la strada per quella che, mercoledì notte, sarà la trionfale nomination di Kerry. Alle tre di notte ha parlato l'ex vicepresidente Al Gore. Alle quattro l'ex presidente Jimmy Carter. Hanno chiuso la serata Hillary e Bill Clinton, dopo uno screzio che li aveva opposti al duo Kerry-Edwards: per il 2008 John Edwards ha ambizioni presidenziali in proprio, considera Hillary Clinton una pericolosa avversaria e perciò l'aveva confinata in una fugace apparizione collettiva delle "senatrici democratiche". Furia di Hillary, braccio di ferro, compromesso: parlerà solo 4 minuti e solo per presentare il marito. Hillary ha accettato, ma riferiremo domani come ha aggirato le limitazioni.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …