Gianni Riotta: Le scarpette bianche di Beslan

06 Settembre 2004
Togliete l'audio e riguardate le immagini del sequestro degli studenti a Beslan, in Russia. Il ragazzo Zaurbek Tsumaratov racconta dei terroristi: "Credevo fosse un gioco", capelli tagliati alla Shevchenko, maglia rossonera del Milan sulle spalle ossute. Una mamma rincorre la bambina che il milite della Cinquantottesima Armata cerca di mettere in salvo. La scolara ha il vestitino lavanda della festa, la Russia meridionale celebra "Il giorno della Conoscenza", primo settembre, apertura delle scuole. Le palazzine dell'edilizia popolare, uguali in tutte le periferie, Londra, Parigi, Milano, brutte?, bruttissime, ma rese belle, bellissime, dall'amore e dalla vita quotidiana di chi spende tra quelle mura la propria esistenza, affanni e gioie. Un prato, l'utilitaria parcheggiata, i vecchi a fumare un mozzicone, la routine che il dramma trasforma subito in felicità perduta. Dove siamo? In Ossezia. Quanti lettori e lettrici hanno familiarità con quelle regioni? Quanti sanno che il Nord dell'Ossezia è fedele a Mosca, il Sud, insieme all'Abkhazia, s'è ammutinato dieci anni fa dalla vicina Georgia e adesso è covo di contrabbandieri e trafficanti di droghe, sponsorizzati dalla Russia? La Cecenia, teatro di una guerra da terra bruciata tra i ribelli e il presidente Vladimir Putin, è al confine, come l'Inguscezia. Quel quartiere in festa d'altri tempi, il fazzoletto in testa alle donne è da contadine non ancora bandana, è prima linea nella guerra al terrorismo e non lo sapeva. Rimettete l'audio: anche noi siamo prima linea nella guerra al terrorismo, e neppure noi vogliamo saperlo. La maglia del Milan, le case, le telecamere subito accese in mondovisione, gli abiti da bancarella di mercato rionale delle mamme e dei papà, lo stupore, la paura, il ribrezzo, provano che il mondo è una sola, unica, periferia. I rapitori sono militanti ceceni di Shamil Basayev, legati al II Gruppo Salakhin Riadus Shakhidi, famigerato per i morti che si lascia dietro. Chiedono di trattare con i presidenti di Ossezia del Nord e Inguscezia e il pediatra e attivista Leonid Roshal. Se i commandos di Putin, che hanno già circondato la scuola, faranno fuoco, minacciano di uccidere cinquanta scolari in rappresaglia, ne hanno in mano più di cento. "E smettete di piagnucolare" intimano gelidi al telefono a un cronista. In Cecenia Vladimir Putin ha condotto una guerra senza lacrime, come nei feroci racconti di Tolstoj dal Caucaso, distruzione, vendetta e rappresaglia, nell'indifferenza occidentale. I ribelli reagiscono impugnando il terrorismo senza logica politica: lo sgomento per la bambina di Beslan che il soldato fa volare per un braccio, senza che i piedini con le scarpette bianche tocchino terra pur di salvarla dalle fucilate, dissolverà la superstite solidarietà per le sofferenze dei ceceni. Dall'11 settembre 2001 capire il mondo è fatica dolorosa fino al pianto. La sola via d' uscita razionale e giusta viene dalla comprensione della nostra nuova era e delle sue guerre, e proviamo perciò ad offrire ai lettori distinguo sottili tra ayatollah moderati, Al Sistani, e chierici estremisti, al Sadr, parliamo di lobby potenti, Bechtel e Halliburton, ci sforziamo su frontiere percorse nei libri di Kipling, Afghanistan, Pakistan, la repressione cinese contro gli uiguri e nel Xinjiang. L'inerzia logora e dispera: come chiedere all'opinione pubblica, stretta nella fatica di ogni giorno, di seguirci in questa difficilissima impresa, come suggerire a chi si preoccupa del mutuo, le rate, l'autunno precario, di distinguere Ossezia del Nord e del Sud e tenere gli occhi sull' Inguscezia? Il video di Beslan conferma l'obbligo di capire. L'indifferenza non ci priva di lezioncine bislacche di geopolitica, ci acceca davanti agli adolescenti sequestrati della I Scuola Media, in aule dove cercavano un domani migliore. Questa è la guerra al terrorismo, questa la posta in gioco, la vita quotidiana, nostra e di dignitosi popoli, infelici e lontani. Nelle ultime ore, la prima guerra globale ha sconvolto nuovi pregiudizi. La morte del povero Baldoni, il sequestro dei reporter francesi, Hamas che chiede di salvarli mentre sventra bus di innocenti in Israele, due aerei russi distrutti in volo, morti a Mosca, dodici nepalesi giustiziati per la colpa di guadagnarsi il pane, bombe a Kabul e ora l'assedio alla scuola di Beslan, provano che non ci sono, né ci saranno, confini geografici o santuari ideologici. Chi si attarda ancora nel dibattito, stantio e impotente, "si batte il terrore con la sola risposta militare o invece con l'azione politico-diplomatica?", dovrebbe essere condannato a rivedere il video dell'Ossezia a oltranza. La soluzione al dilemma è semplice e terribile. Occorre un'azione militare ferma e coordinata, capace di annientare l'offensiva fondamentalista. Al tempo stesso, come in tutte le guerre capaci di germinare pace duratura, va isolata la rivolta di Al Qaeda nelle comunità musulmane dove si incista, integrando gli emigranti, accettando scambi culturali e rimuovendo le ipocrisie, politiche ed economiche, che alimentano la propaganda nelle madrasse del Medio Oriente. La volontà militare del nemico va spezzata con risolutezza sul campo, senza indugi, ma con il resto della enorme comunità islamica, la humma, va condiviso un modello magnanimo di tolleranza. Il mondo islamico assiste alla battaglia in corso. I ribelli cercano l'egemonia, non per occupare o annientare l'Occidente, ma per impedire la diffusione di giustizia, libertà, ed uguaglianza. Osama Bin Laden non sogna di regnare sulla Casa Bianca o l'Eliseo, vuole che tutto il sacro suolo dell'Islam sia soggetto alla legge del fanatismo. Catturarlo è indispensabile, ma non concluderà la guerra. Ibn Al Kattab, il leader fondamentalista più venerato dopo Osama, è stato avvelenato dai russi proprio in Cecenia nel 2002. La sua morte ha reclutato nuovi kamikaze, compresi gli uomini e le donne per vendicare le vittime cecene si ripropongono di ammazzare ginnasiali con il vestito da festa. Se non vogliamo che l'orrore del Giorno della Conoscenza di Beslan dilaghi, dobbiamo ostinarci a conoscere il mondo nuovo, con le sue battaglie ineludibili, i suoi dolori, le sue speranze di coesistenza.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …