Gianni Riotta: Italia e America. La grande cucina

04 Ottobre 2004
Il giro furtivo di telefonate comincia al mattino presto del 19 maggio scorso, mercoledì. Al mercoledì le copie staffetta del ‟New York Times magazine”, in edicola la domenica, cominciano a circolare tra gli addetti ai lavori. Qualcuno legge l'articolo di Jonathan Reynolds, "The real thing", la cosa seria, e compone i numeri degli amici. La Carboneria italiana di Manhattan, che custodiva il segreto di "the real thing", era stata scoperta dalla rivista patinata. Se volete mangiare "all'italiana", spiegava Reynolds, New York è piena di ristoranti. Se invece volete pranzare e cenare come gli italiani pranzano e cenano a casa nei giorni fortunati, allora andate da "Teodora" il ristorante di Giancarlo Quadalti e Roberta Riccioli, all'angolo tra la Cinquantasettesima strada e Lexington Avenue. Perduti, stanati, fregati, smascherati e non uso l'ultimo participio passato che ho in mente perché non adatto allo storico ‟Corriere della Sera”. "Teodora", o "da Giancarlo" come tanti dicono a New York, non è più il nostro segreto, il covo dove parlare di Prodi e Berlusconi, Adriano e Gattuso, del boom della Vespa, della noia dei programmi Rai, della guerra che va male, l'economia fa acqua, i figli, gli amori, i libri, il ragù e la zuppa di vongole. Qui arrivano Umberto Eco e Susanna Agnelli, Renzo Piano si riposa dalle fatiche del progetto ad Harlem, il professor Sartori affila l'editoriale, Oriana Fallaci detta a Giancarlo ricette di sua creazione (e lui obbedisce!). Con il romagnolo Arrigo Sacchi, Quadalti, nato a Ravenna nel 1963, parla in dialetto, a Massimo Moratti lamenta ancora la cessione dell'adorato Baggio dall'adorata Inter. Isabella Rossellini e Gianni Morandi sono di casa come Furio Colombo, quando va a visitare la nipotina. La tristezza di quel mercoledì era temperata dall'orgoglio, i newyorkesi avrebbero finalmente mangiato "italiano". Non più la pasta affogata nella salsa o in un hamburger battezzato ragù come gli italo-americani, che servono "pollo cacciatori" in uno stagno di peperoni, "vitello piccato", costoletta agli steroidi fritta nella plastica. E neppure la cucina "internazionale" dei locali per le modelle e i vip, dove la cotoletta alla milanese è un Rotolo del Mar Morto condito di rughetta e il risotto brilla come un residuo radioattivo, e il vino vale più per l'etichetta che per la sua beva. No, buon senso in cucina, come dalla mamma, dalla nonna, dal cuoco alla trattoria dietro l'angolo. Giancarlo Quadalti ha al polso un bell'orologio, sta fuori, per una volta, dalla sua cucina, con i vetri che dominano il locale come la tolda di una nave. Roberta, erede della dinastia Riccioli che gestisce a Roma lo storico locale "La Rosetta", riconosce i clienti come amici, si informa delle novità, decora gli scaffali con ninnoli scovati chissà dove. Tanti cuori solitari le fanno la corte, businessmen che mangiano gli strozzapreti al tavolo del bar, lei sorride a tutti e procede altera, manager seria, mamma serissima. Per trovare spazio tra i tavolini di "Teodora", sui due piani di una townhouse, aspettiamo le quattro. E allora, tra una fetta di pane appena sfornato, una piadina calda, gli affettati, il formaggio squacquerone di Ravenna, parla il signore che sta insegnando agli americani cosa mangiamo noi italiani. "Facevo la scuola alberghiera a Milano Marittima, su e giù tutti i giorni, in classe un somaro, ma i professori mi adoravano perché ero bravo a cucinare. Un giorno arriva il direttore dell'Hotel Mare Pineta, veniva a prendersi i migliori, gli indicano me, "Ma è piccolo! mi casca nella padella!". Avevo 14 anni, arrivavano i playboy con la Ferrari, si faticava fino a tarda notte, non sono uscito più dalla cucina. Il San Domenico di Imola, poi la voglia di vedere il mondo, le navi da crociera, "Sai fare la pizza?". Io? La pizza? Sì invece, certo che so fare la pizza. E quindi New York, i ristoranti di Pino Luongo, Amarcord, Le Madri, infine Teodora e la prova del far da soli". Con Roberta Riccioli adesso Quadalti controlla tre ristoranti, "Teodora", "Celeste sul West Side", ritrovo di studenti e intellettuali, e l'ultima nata "Bianca", downtown, nella vecchia Bowery che il poeta Ginsberg considerava sacra ai poveri e dove si serve uno gnocco fritto che vale la fine della dieta. Come vince un cuoco la sfida americana? "Con il sapore - dice Quadalti - noi siamo cresciuti con i sapori, li ricordiamo. Vivevo in periferia di Ravenna, in giardino avevamo conigli, tacchini, polli da uova, tiravo il collo alla gallina vecchia per il brodo, c'erano fagiani, maialini, di tutto. Ho mangiato per la prima volta la pasta industriale da ragazzo, a casa mia mamma ogni giorno si svegliava presto e tirava la sfoglia, per le tagliatelle, per i cappelletti. È venuta a trovarmi una volta qui, per gioco s'è messa in cucina a fare cappelletti, due dita, un tocco, via, due dita un tocco via, piano piano ha riempito il tavolo con file ordinate, uno via l'altro, come soldatini. I miei della cucina la guardavano sbalorditi. Mi chiedi una ricetta e non so dartela, ricordo lei, sento il sapore, ficco dentro un dito nel sugo, un giorno sono di cattivo umore e aggiungo sale, un giorno felice e vado al rosmarino, lo adoro, il profumo è la mia vita". A un tiro di taxi da qui le cucine sperimentali propongono filettini di pesce da 90 dollari (75 euro) cotti a vapore in stile sanatorio dell'800, crosticine di carne imbottite alla Blade Runner, pop corn su zuppette decorate con il segno del Tao: "Io insisto sulla semplicità, la tradizione, il gusto - dice Quadalti, scuotendo la testa scettico -, mia madre lasciava magari attaccare l'arrosto, o il pollo in casa veniva stracotto, ma che bontà!, il sughetto, la pelle bruciata, ecco, la cucina è imperfezione, fatica quotidiana, spadellare, provarci, solo il sapore deve guidarti". Una sera ho invitato Giancarlo a cena, menù spaghetti con le vongole, con un'occhiata ha incenerito il mio soffritto, abbiamo ricominciato, la fiamma alta, se non rischi in cucina che gusto c'è? "Vai a memoria, segui quel che hai visto da bambino, il sapore, il sapore ce l'hai dentro. Se son da solo mangio un'insalata, la bistecca, e l'hamburger che, se fatto bene, è buonissimo. Insisto su un menu di pochi piatti, inutile fare la centesima cotoletta di Manhattan, meglio le lasagne, i passatelli, i garganelli, il fritto misto, gli arrosti classici e i dolci, vini sensati, tutto semplice". Quando gli americani se ne vanno, quando il fuso orario lo permette, una parete di legno gira e rivela una tv megaschermo. Là passano le immagini degli azzurri, calcio, Mondiali, Europei, la piadina, dai!, una lasagna, forza!, due tagliatelle, gol!, con la nostalgia e la fierezza del meglio che 'sto strano Paese detto Italia produce, tradizione, qualità, innovazione, onestà, bellezza. Insieme alla pizza, al takeaway cinese e alla pasta più semplice possibile, la grigliata mista era diventata il pezzo forte di famiglia.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …