Diamoci la sveglia con Michael Moore

30 Settembre 2004
Facciamoci un regalo, qualcosa che ci ridia rabbia per agire, nervi combattenti, via dal letargo estivo, di nuovo in piazza. Diamoci la sveglia con Michael Moore, andiamo tutti a vedere Fahrenheit 9/11. Io l'ho fatto, insieme a decine di vacanzieri giunti agli ultimi giorni della vacanza, nel tardo pomeriggio, nel cinema della città di mare, l'ho visto con intere famiglie ancora con gli infradito ai piedi e la sabbia nei capelli, distratti, scettici. Li ho ascoltati chiacchierare prima della proiezione. Uno diceva. ‟È un americanata”. Un altro (bermuda, camiciotto svolazzante) faceva il superiore: ‟È pura propaganda”. A chi nominava con rispetto la palma d'oro, rispondeva sicuro: quello è un premio politico, sono tutti nella stessa ‟banda”. Fuori dal cinema, quando siamo usciti, era già quasi buio, ma l'atmosfera era cambiata. Nessuno parlava. Qualcuno si soffiava il naso, cercando di tornare alla dignità della leggerezza, obbligatoria nelle villeggiature, dopo aver pianto. Dopo aver riso a disagio. Dopo aver guardato, per due ore, la realtà documentaria d'una tragedia dove colpevole non è il fato, ma l'uomo. I suoi interessi, il suo cinismo. Una classe, i suoi interessi. Farheneit 9/11 è innanzi tutto un capolavoro rabelaisiano, un moderno flaubertiano Bouvard o Pecuchet… il ritratto impietoso di George doppiovù Bush, eletto con l'imbroglio, credenziali per intraprendere la carriera di Presidente: figlio di suo padre. La camera ce lo rimanda tutto contento di sé stesso, ammiccante ad ogni tipo di obbiettivo e totalmente vuoto fra una posa e l'altra. Moore danza attorno ai suoi occhietti crudeli e insipidi, alla sua banalità di eterno gitante, ai suoi ‟strike” di golfista, alla sua canna da pesca, alle sue passeggiate da ranchero superaccessoriato, alla sua cordialità fasulla, alla sua superficialità avida da bambino viziato. Moore lo sorprende mentre stringe la mano ad arabi d'alto lignaggio (i potenti sauditi, la famiglia Bin Laden), sorprende i suoi collaboratori mentre sintonizzano le loro balle sulle sue in un coro angelico di retorica western senza spessore e senza ragioni. Moore svela, documenti alla mano (se non li avesse sarebbe già in una delle accoglienti galere americane), trame e crimini, bugie e paradossi. Uscendo ho sentito il bisogno di rompere il silenzio atterrito in cui eravamo precipitati: ‟Mi chiedo se questo film è il ritratto perfetto di un semplice cretino, o il ritratto semplice di un perfetto cretino” Tutte e due? Tutte e due. Ma se nel film ci fosse soltanto questa operazione, per così dire, psichiatrica, non sarebbe così sconvolgente. Utile, intelligente, ben fatto, ma non terribile, non così atroce. Perché è rischioso e triste che il Paese più importante del mondo sia governato da un cretino, ma è farsa, non dramma. Purtroppo, a contrappunto delle gesta mediatiche dello ‟stupid white man”, c'è il pianto delle madri, un dolore debordante, assoluto, uno strazio che l'insistenza della regia rende intollerabile, come è giusto che sia. C'è una grassa grigia donna irachena che invoca Allah, c'è una grassa bionda americana che invoca Dio. Hanno perso quello che avevano di più prezioso. Tutte e due. E piangono e gridano che non è giusto. La grassa irachena è la madre del nemico, la grassa americana è una che ha votato Bush, patriottica e repubblicana. Tutte e due sono donne povere, senza potere, senza diritto di essere ascoltate. Tutte e due piangono senza speranza, senza poter sognare un riscatto. L'americana non voterà più Bush, l'irachena rimpiangerà il dittatore Saddam che almeno non bombardava la sua casa. Non c'è democratico che possa cancellare il sangue versato. Il sangue dei ragazzi americani che, intervistati da Moore, appaiono rimbecilliti dalla techno-propaganda (quant'è fico ammazzare con la musica che ti sballa in cuffia) o sconcertati dalla scoperta del male: rozzi e ignoranti, o sensibili e ignoranti. Tertium non datur. Il sangue degli iracheni, quelle immagini che ci torturano da due anni: bambini martoriati, arti amputati fasciati malamente, sguardi annichiliti dal terrore. Ma sì, fatevelo, questo regalo, andate a vedere al cinema il sottotesto negato di tanti telegiornali. Quelle poche frasi di commento che chiudono la antologia dei misfatti e, proprio perché rompono l'oggettività delle immagini e dei dati, suonano tanto più forti e definitive: la guerra la combattono i poveri. Ci guadagnano i ricchi. O direttamente, perché vendono armi, catering da prima linea, ricostruzione di quanto fin lì distrutto, oleodotti. O indirettamente, perché la guerra serve a mantenere in vita questa società corrotta e destinata ad autodistruggersi se non si espande, se non deborda, se non schiaccia, se non uccide. Il capitalismo.
Nessuno dei figli dei deputati del Parlamento Americano è al fronte.
Nessuno dei figli dei nostri deputati e senatori è a Nassirya, non ci sono carabinieri fra i rampolli del centrodestra. Ma se sono così sicuri che è lì che dobbiamo stare, perché non ce li mandano, i loro figli?
In Iraq, i nostri falchi virtuali, non ci mettono piede, semmai il tempo di una ripresa, di due fotoricordo ,e subito a casa, a riempirsi la bocca di retorica tricolore. In Iraq ci è andato, da solo, senza protezione e senza strumenti per comunicare, un uomo di pace, uno di quelli che proprio non ce la fanno a non farsi coinvolgere dal dolore lontano. L'hanno ammazzato prima ancora che scadesse l'ultimatum su cui, comunque, il nostro governo aveva intenzione di glissare. Perché? Dobbiamo aspettare che sia Michael Moore a raccontarcelo?

Fahrenheit 9/11 di Michael Moore

Reportage inediti, testimonianze dirette, domande impietose poste ai potenti del mondo: scene indimenticabili e mai mostrate dai media compongono Fahrenheit 9/11. Si comincia con le contestazioni alle elezioni presidenziali del 2000 e la denuncia delle imbarazzanti amicizie tra le famiglie Bush,…