Domenico Starnone: È tutto normale. Anche Al Qaeda
22 Ottobre 2004
Viste a ridosso del 2 novembre, le campagne militari di Afghanistan e d'Iraq sembrano non risposte meditate all'11 settembre di tre anni fa, ma solo un momento importante della campagna elettorale di George W. Bush. Sono state considerate guerre facili, evidentemente, buone per dare al presidente il lauro del condottiero e riconfermargli a furor di popolo la carica. Ma la valutazione non si è rivelata fondata.
La scadenza elettorale è prossima e Bush, incalzato da Kerry, è costretto a puntare sulla conquista furiosa di città piuttosto che di nazioni. Le bombe su Falluja sono come suoi ultimi volantini a pochi giorni dal voto.
Inventarsi guerre inutili, più inutili di quanto tradizionalmente siano le guerre, e mettere in circolazione un cospicuo numero di menzogne per giustifìcarle, è dannosissimo. Immaginarsele come un passaggio necessario per permettere al proprio gruppo, e agli interessi che esso rappresenta, di vincere una competizione elettorale e conservare il potere, è obbrobrioso. Ma noi ne parliamo e ne scriviamo ogni giorno come se fosse normale. Ci sembra normale che in Afghanistan si finga che ci sia una democrazia con il suo regolare rito elettorale. Ci sembra normale la finzione che sia iracheno un governo imposto da truppe di liberatori che non sanno come liberare se stessi dalla trappola in cui sono finiti. Ci sembra normale fìngere che elezioni debitamente imposte da eserciti stranieri daranno finalmente all'Iraq un governo democraticamente eletto, e non capiamo come possa accadere che un pugno di spietati fanatici si opponga seminando ogni giorno morte. Ci sembra normale che noi, alleati di truppe che abbattono dittatori, celebriamo commossamente i dolori del povero Mussolini nel salotto finto di Bruno Vespa. Ci sembra normale, persino, che i carabinieri di Nassiriya utilizzino i filmati degli scontri di Genova (quelli in cui fu ammazzato Carlo Giuliani: una delle pagine più inquietanti della gestione dell'ordine pubblico in una democrazia) per addestrare gli iracheni (gli iracheni, dico, nell'Iraq d'oggi; Genova come finta Baghdad) a difendere il voto popolare. La nostra normalità, insomma, è vivacchiare dentro finzioni, per quieto vivere o per connivenza.
Del resto questo è un paese che digerisce anche i sassi, ormai. Abbiamo assimilato senza grandi clamori Treviso che cancella moschee e la Padania leghista che grida: i turchi non si meritano l'Europa. Ci stiamo abituando all'idea che non è in atto la seconda guerra irachena ma una guerra di civiltà, quindi di religione. Grazie a una chiesa sempre più prodiga di coraggiose supplenze, stiamo riscoprendo il tepore della nostra vera religione, ci indispettisce Almodovar, opponiamo la bontà del creato alla superbia di Frankenstein, confrontiamo il dio biblico con quello del Corano, ne deduciamo che il primo è più vero, concludiamo con serena protervia che la Verità ha sede stabile in Occidente. Soprattutto ci sembra naturale (e tutto ciò che è naturale è buono, perché la natura è creazione di dio) che, in un frangente così drammatico, la politica torni a mescolarsi con la nostra religione, a destra come a sinistra. Mentre non vogliamo nemmeno sapere se c'è politica dietro i musulmani che si attengono ai versetti coranici non violenti, dietro quelli che seminano morte appellandosi a quelli della Spada. Da quella gente lì, da quel libro sacro lì, viene il terrorismo e questo basta. Ma chi diffonde terrore in Iraq e per il mondo? Sono talebani sfuggiti alle bombe in Afghanistan? Sono fedelissimi di Saddam Hussein? Sono i guerrieri multinazionali de1 mostruoso Bin Laden? Chi è il nemico, insomma, cosa ha nella testa, perché è così spietato, come mai è cocciutamente combattivo, cocciuto fino al punto da rompere le uova nel paniere elettorale di Bush? Se si legge, ad esempio, il libro di Jason Burke, Al Qaeda, la vera storia, tutto assume una tonalità diversa. Non meno inquietante, si badi bene, ma più sfaccettata. Burke, che è caporeporter dell'”Observer” , restituisce complessità storico-politico-religiosa alle pratiche del terrore. Mostra come Al Qaeda e Bin Laden siano di fatto semplificazioni utili per individuare un nemico senza il quale, come si sa, è impossibile fare la guerra. Dà informazioni sufficienti a convincerci che le guerre e la loro rappresentazione mediatica sono state una manna per la crescita di Al Qaeda e la diffusione di ciò che riduttivamente chiamiamo terrorismo (il terrorismo è una tattica, ci ricorda Burke: il problema è capire chi l'adotta, perche, a quali fini, e con quali tattiche gli si risponde e lo si batte). Comunica a chi legge che, proprio per la complessità delle sue ragioni storiche, politiche e religiose, per la sua estensione variegata, non riducibile a uno, il pericolo è di gran lunga più grande di quello che i media ci suggeriscono ogni giorno. Ci convince definitivamente che spianare montagne e città non solo non è servito a Bush a garantirsi senza ansie la rielezione, ma ha irrobustito il bisogno di reazione violenta contro tutto ciò che sa di Occidente.
La scadenza elettorale è prossima e Bush, incalzato da Kerry, è costretto a puntare sulla conquista furiosa di città piuttosto che di nazioni. Le bombe su Falluja sono come suoi ultimi volantini a pochi giorni dal voto.
Inventarsi guerre inutili, più inutili di quanto tradizionalmente siano le guerre, e mettere in circolazione un cospicuo numero di menzogne per giustifìcarle, è dannosissimo. Immaginarsele come un passaggio necessario per permettere al proprio gruppo, e agli interessi che esso rappresenta, di vincere una competizione elettorale e conservare il potere, è obbrobrioso. Ma noi ne parliamo e ne scriviamo ogni giorno come se fosse normale. Ci sembra normale che in Afghanistan si finga che ci sia una democrazia con il suo regolare rito elettorale. Ci sembra normale la finzione che sia iracheno un governo imposto da truppe di liberatori che non sanno come liberare se stessi dalla trappola in cui sono finiti. Ci sembra normale fìngere che elezioni debitamente imposte da eserciti stranieri daranno finalmente all'Iraq un governo democraticamente eletto, e non capiamo come possa accadere che un pugno di spietati fanatici si opponga seminando ogni giorno morte. Ci sembra normale che noi, alleati di truppe che abbattono dittatori, celebriamo commossamente i dolori del povero Mussolini nel salotto finto di Bruno Vespa. Ci sembra normale, persino, che i carabinieri di Nassiriya utilizzino i filmati degli scontri di Genova (quelli in cui fu ammazzato Carlo Giuliani: una delle pagine più inquietanti della gestione dell'ordine pubblico in una democrazia) per addestrare gli iracheni (gli iracheni, dico, nell'Iraq d'oggi; Genova come finta Baghdad) a difendere il voto popolare. La nostra normalità, insomma, è vivacchiare dentro finzioni, per quieto vivere o per connivenza.
Del resto questo è un paese che digerisce anche i sassi, ormai. Abbiamo assimilato senza grandi clamori Treviso che cancella moschee e la Padania leghista che grida: i turchi non si meritano l'Europa. Ci stiamo abituando all'idea che non è in atto la seconda guerra irachena ma una guerra di civiltà, quindi di religione. Grazie a una chiesa sempre più prodiga di coraggiose supplenze, stiamo riscoprendo il tepore della nostra vera religione, ci indispettisce Almodovar, opponiamo la bontà del creato alla superbia di Frankenstein, confrontiamo il dio biblico con quello del Corano, ne deduciamo che il primo è più vero, concludiamo con serena protervia che la Verità ha sede stabile in Occidente. Soprattutto ci sembra naturale (e tutto ciò che è naturale è buono, perché la natura è creazione di dio) che, in un frangente così drammatico, la politica torni a mescolarsi con la nostra religione, a destra come a sinistra. Mentre non vogliamo nemmeno sapere se c'è politica dietro i musulmani che si attengono ai versetti coranici non violenti, dietro quelli che seminano morte appellandosi a quelli della Spada. Da quella gente lì, da quel libro sacro lì, viene il terrorismo e questo basta. Ma chi diffonde terrore in Iraq e per il mondo? Sono talebani sfuggiti alle bombe in Afghanistan? Sono fedelissimi di Saddam Hussein? Sono i guerrieri multinazionali de1 mostruoso Bin Laden? Chi è il nemico, insomma, cosa ha nella testa, perché è così spietato, come mai è cocciutamente combattivo, cocciuto fino al punto da rompere le uova nel paniere elettorale di Bush? Se si legge, ad esempio, il libro di Jason Burke, Al Qaeda, la vera storia, tutto assume una tonalità diversa. Non meno inquietante, si badi bene, ma più sfaccettata. Burke, che è caporeporter dell'”Observer” , restituisce complessità storico-politico-religiosa alle pratiche del terrore. Mostra come Al Qaeda e Bin Laden siano di fatto semplificazioni utili per individuare un nemico senza il quale, come si sa, è impossibile fare la guerra. Dà informazioni sufficienti a convincerci che le guerre e la loro rappresentazione mediatica sono state una manna per la crescita di Al Qaeda e la diffusione di ciò che riduttivamente chiamiamo terrorismo (il terrorismo è una tattica, ci ricorda Burke: il problema è capire chi l'adotta, perche, a quali fini, e con quali tattiche gli si risponde e lo si batte). Comunica a chi legge che, proprio per la complessità delle sue ragioni storiche, politiche e religiose, per la sua estensione variegata, non riducibile a uno, il pericolo è di gran lunga più grande di quello che i media ci suggeriscono ogni giorno. Ci convince definitivamente che spianare montagne e città non solo non è servito a Bush a garantirsi senza ansie la rielezione, ma ha irrobustito il bisogno di reazione violenta contro tutto ciò che sa di Occidente.
Al-Qaeda di Jason Burke
Al Qaeda è la parola più utilizzata e fraintesa dai media. In arabo la parola è un sostantivo astratto. Il suo significato include concetti come ‟schema”, ‟formula”, ‟base”. Ma che cos’è esattamente Al Qaeda? Il catalizzatore di uno scontro tra cultura occidentale e islamica o semplicemente un…