Gianni Riotta: Il peso dei guru sulla roulette del voto Usa

26 Ottobre 2004
La formula per pronosticare il vincitore delle elezioni americane è semplice: se il voto sarà un referendum su Bush vince Kerry, se gli elettori andranno al ballottaggio sul senatore democratico, la vittoria andrà a Bush. Il paradosso dell'ultima settimana è tutto qui. Nessun presidente della storia moderna ha mai avuto in novembre più voti del suo indice di gradimento in ottobre: George W. Bush oscilla tra il 48 e il 49% nei favori dei cittadini e tanti suffragi avrà il 2 novembre. Se rieletto, sfaterebbe una massima di Washington, tutti i presidenti che da giugno in avanti sono scesi sotto il 50% nei consensi hanno morso la polvere alle urne. Le elezioni più drammatiche del dopoguerra si decidono su una manciata di voti, Bush può affermarsi con il 48% se ben distribuito nel collegio dei grandi elettori statali, o essere sconfitto pur spuntandola nel voto popolare. Sarebbe la vendetta di Al Gore, che soffrì analogo destino nel 2000. Ogni scheda conterà e potrebbero essere molti di più dei 106 milioni (pari al 51% degli aventi diritto) che andarono alle urne nel 2000, forse 121 milioni, secondo il sociologo Curtis Gans. E.J. Dionne, editorialista liberal del quotidiano ‟Washington Post” sonda gli umori del Paese mangiando agnello nella cantina del bar "Tombs", covo dei malati di politica: "Vince chi porta alle urne il maggior numero di sostenitori, niente distacco perché Bush non è amato e Kerry non ha scaldato". Dietro l'angolo, tra i marmi della Brookings Institution, lo studioso Anthony Corrado calcola "il voto per Bush non oltre il 48%", ma non può stimare come diffuso sul territorio: "Karl Rove, consigliere di Bush, insiste che decisiva è la guerra al terrorismo. E per milioni di elettori il dilemma è proprio chi sarà più duro, Bush o Kerry". Rove parla al suo staff, riprogrammando per l'ultima volta il cervellone "Cassaforte", con l'identikit di milioni di simpatizzanti: "Sarà eletto presidente chi proverà di poter vincere la guerra contro il terrorismo". Calvo, rotondo, detto "Genio ragazzino", Rove vede in gioco la sopravvivenza, se Bush va in pensione lui sarà considerato il colpevole principale. Il suo calcolo ignora il centro e fa risuonare la tromba di Gerico per i 4 milioni di cristiani fondamentalisti che nel 2000 disertarono le urne, disgustati dal passato di bon vivant di Bush. "Ecco perché - valuta Corrado - si parla tanto di cellule staminali, matrimonio dei gay, cultura della vita. Le elezioni sono sul terrore, ma per raccogliere i voti della periferia politica ecco la battaglia culturale". Secondo John Green, dell'Università di Akron, gli elettori cristiani tradizionalisti potrebbe essere meno e non monolitici. La Chiesa cattolica americana, per esempio, ha osteggiato Kerry, su aborto e gay, ma la gerarchia vaticana ne apprezza gli atteggiamenti su Iraq e Onu. "Si tratta di minoranze - insiste Corrado - ma ecco che gli elettori neri, da sempre democratici ma conservatori sui gay, potrebbero premiare Bush. Anche le mie zie italoamericane sono perplesse sulle nozze omosessuali, preferendo il no repubblicano". Bush può ricevere il 18% di voti afroamericani, il doppio che nel 2000. Se uno dei candidati fosse in vantaggio netto queste pattuglie di elettori non sarebbero cruciali. Nel testa a testa sì e il voto diventa una scelta "contro" non "a favore". La strategia di John Kerry è dettata dalla banca dati "Demzilla", Godzilla democratica, "incassare i voti di Gore 2000 e aggiungere uno Stato vinto allora da Bush, Florida o New Hampshire". Con la corsa apertissima in undici Stati, New Hampshire, Pennsylvania, Ohio (Bush a rischio), Michigan (Kerry a rischio), Wisconsin, Minnesota, Iowa, Colorado, Nevada, New Mexico e Florida, un solo passo falso vanifica anni di tattiche. Contano i voti e ancor di più i voti dei leader d'opinione, capaci di condizionare gli umori. Il generale Brent Scowcroft, ex consigliere di Bush padre che dal 2002 predica contro la guerra in Iraq, raccoglie perciò i dignitari del Comitato Nazionale dell'American Foreign Policy in un club della 66esima strada a Manhattan (menu tacchino e torta di ricotta) e chiarisce che, malgrado tutto, voterà Bush. Dal suo tavolo si alza d'improvviso Richard Holbrooke, ex ambasciatore all'Onu, per schizzare al telefono dal rivale democratico Kerry: Holbrooke, che spera di essere nominato segretario di Stato, lancia ai notabili l'appello prima del dessert "Kerry!". Nella capitale Washington, in un salotto decorato con i ritratti cupi dei potenti del passato, camicie bianche anziché le cotte di velluto della corte di Velázquez, la battaglia tra i Vip politici vede protagonista Susan Rice, consigliere di Kerry su politica estera e antiterrorismo. Donna, afroamericana, lauree a Oxford e Stanford, le chiedo scherzando "In Europa diranno, ma come, dopo la Condoleezza Rice, afroamericana esperta di Bush, una nuova Rice con Kerry al Consiglio per la sicurezza nazionale?". Ride "E il guru della destra O'Reilly ha detto in tv che ci somigliamo pure. Mia madre s'è infuriata, vero mamma?". Mamma Rice, severissima studiosa ospite dello stesso meeting, non fa sconti "Susan è più bella. Ma mi dica, gli europei daranno una mano a Kerry?". Giro la domanda alla Susan Rice che risponde con la grinta della sua omonima di destra "Kerry non sarà ossessionato dall'unilateralismo e dalla guerra solitaria. Inutile spaccarsi su Iraq e terrorismo, quando ci aspettano sfide tragiche, da Iran e Nord Corea nucleari, ai negoziati sul commercio". Segnatevi questo nome, Susan Rice, ne sentirete parlare. Niente svolte, invece, dai conservatori della Casa Bianca. Rich Falkenrath, vicedirettore dell'Antiterrorismo e dirigente della campagna di Bush, resta duro "Il presidente non farà pace con voi europei tanto per farla. I rapporti bilaterali non sono un fine, sono un mezzo per ottenere risultati. E poi i leader europei dicono una cosa sul presidente Bush in pubblico e un'altra in privato". Verissimo, ma Falkenrath fa spallucce quando gli confesso che si tratta del caso opposto, anche nei governi di Londra e Roma, pro-guerra in Iraq, c'è chi in privato tifa Kerry. L'opinione pubblica è satolla di informazioni. I repubblicani fanno gran uso dei Vip centristi, il governatore macho Arnold Schwarzenegger, il senatore eroe di guerra John McCain, l'ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, ma la crociata vera è a destra. Kerry invita sul podio Dana Reeve, moglie dell'attore Christopher "Superman", come testimonial per la ricerca biologica censurata da Bush, non volendo lasciare scoperta "la cultura della vita" ma sa che nodo resta il terrorismo. La vittoria di Bush ai calci di rigore confermerà l'attuale strategia geopolitica, dando fiato alla filosofia dei neoconservatori e spaccando il partito democratico. Da una parte i clintoniani, come John Edwards, dall'altra i radicali di Howard Dean, pronti ad attribuire la sconfitta alla prudenza di Kerry. La vittoria di Kerry, malgrado i suoi piani restino opachi su tanti punti, riaprirebbe il dialogo con Onu e Europa, mettendo alle corde i repubblicani. I moderati che applaudono il generale Scowcroft chiederanno il conto ai neoconservatori e ai cristiani fondamentalisti e lo scontro sarà fortissimo. Bill Kristol, direttore del foglio neocon ‟Weekly Standard”, quasi pregusta l'opposizione "Se Kerry vince ci saranno purghe staliniane nel partito e fucilazioni. Noi reagiremo e ci divertiremo un sacco". Basta che le mamme della Florida abbiano un accesso d'ansia il 2 novembre, basta che i camionisti dell'Ohio si sveglino incavolati e vincerà...

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …

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