Marco D’Eramo: Elezioni inglesi. L'ultima volta di Tony Blair

05 Maggio 2005
Oggi la Gran Bretagna vota senza grandi patemi, ma con una certa inquietudine per il Labour party al potere che cerca una storica terza riconferma (mai avvenuta in tutto il XX secolo). Tutti i sondaggi danno infatti vincitore il partito del premier Tony Blair, ma una serie di circoscrizioni in bilico (qui dette "marginali") potrebbero far passare il Labour dal trionfo a una conferma risicata. Due titoli d'apertura lo confermavano, ieri: per il ‟Guardian” "Un sondaggio rivela la fragilità del vantaggio laburista", mentre per il ‟Financial Times” "Il Labour aumenta il suo vantaggio nei sondaggi". Il nervosismo laburista dipende dall'abominevole iniquità del metodo elettorale britannico: tutte le 646 circoscrizioni del Regno unito sono infatti uninominali, vince chi arriva primo (non c'è bisogno di superare il 50% dei voti, non c'è quindi nessun secondo turno come in Francia). Perciò in teoria un partito con il 30% dei voti in tutte le circoscrizioni potrebbe accaparrarsi la totalità dei seggi. E un partito sopra il 20%, come il Liberaldemocratico (Libdem), si trova con un dodicesimo dei deputati.
Blair si è ben guardato dal correggere questa distorsione pur avendo avuto i numeri per farlo (nella legislatura uscente il Labour aveva 413 seggi contro 166 Tories e 52 Libdem) perché per due volte, nel 1997 e nel 2001 lo ha avvantaggiato: ma questa volta rischia di sfavorirlo perché, pur senza nessun'avanzata in numero assoluto di voti, i Conservatori potrebbero sopravanzarlo in una serie di collegi in cui il suo vantaggio è debole, nel caso una parte dell'elettorato socialista decidesse di votare Libdem, per esprimere il suo scontento per lo stile di governo di Blair e per la guerra in Iraq. L'esito delle elezioni dipende perciò da circa 120 collegi in bilico che i candidati stanno coprendo a tappeto fino all'ultimo minuto.
La breve campagna elettorale (un mese in tutto) è stata infatti ravvivata solo dalle polemiche sull'Iraq, in particolare dalla pubblicazione - dopo due anni - del primo parere del ministro della Giustizia sull'illegalità della guerra (un secondo parere, l'unico reso pubblico allora, ne sancì invece la legalità), e dalla pubblicazione delle minute di una riunione a Downing Street otto mesi prima dell'invasione, da cui si evince che, legato mani e piedi dalla promessa che aveva fatto a George Bush, Blair era deciso a invadere l'Iraq a qualunque costo e comunque. Dopo la pubblicazione del legal advice del ministro della giustizia, già un gruppo di genitori di caduti ha deciso d'intentare causa al governo. Un simbolo del fantasma iracheno che continua a ossessionare il premier è la candidatura (con zero possibilità di successo, ma altamente mediatizzata) di Red Keys nella circoscrizione di Sedgefield, quella in cui viene eletto Tony Blair. Il figlio di Keys, il caporale dei lancieri Tom, fu ucciso in Iraq nel giugno 2003.
L'Iraq non è affatto in testa alle preoccupazioni degli elettori inglesi, anche perché finora il costo in vite umane britanniche è stato irrilevante (87 soldati caduti) rispetto a quelle statunitensi (1600), per non parlare degli iracheni uccisi che non rientrano in nessun conteggio. Né le opinioni sulla guerra sono state mutate dalle ultime rivelazioni: chi l'appoggiava continua a farlo, come anche chi la osteggiava. Eppure l'Iraq ha avuto un effetto devastante sul leader Tony Blair in persona. Intanto ne ha minato la credibilità: ormai è opinione unanime in Gran Bretagna che il premier sia un falso (il suo nome è deformato in "Bliar": liar vuol dire appunto bugiardo). Questa disistima pervade anche i settori d'opinione che avevano appoggiato (o ancora appoggiano) la guerra in Iraq in nome di un "imperialismo liberale" alla Gladstone. Il sorriso che tanti voti gli aveva procurato nel 1997 e nel 2001 adesso viene definito un sogghigno, un ammiccamento. È molto difficile restare leader di un paese che ti disprezza all'unanimità.
I Conservatori però non hanno tratto nessun vantaggio da questo discredito, perché nessuno crede che il loro leader Michael Howard sarebbe stato più veritiero di Blair. Un piccolo vantaggio lo hanno ricevuto i Libdem di Charles Kennedy, da sempre contrari alla guerra. In realtà tutto si è concluso in uno svantaggio netto del Labour, a favore di nessuno, o al più dell'astensionismo: già nel 2001 l'affluenza aveva toccato il suo minimo storico in tempo di pace, il 59%, e il vero punto interrogativo è sapere quanti dei 44 milioni di aventi diritto si recheranno davvero alle urne. Così da giorni è martellante la campagna laburista per convincerei suoi elettori che votare Libdem è solo un modo per far rientrare dalla finestra i Tories al potere. Un altro slogan dice: "Se uno su dieci elettori labour non si reca a votare, i Tories tornano al potere".
Ma l'effetto peggiore dell'Iraq è che ha impedito al Labour di fare campagna sui temi che avrebbe preferito, cioè su economia e servizi pubblici. L'Iraq ha relegato dietro le quinte la barbarica campagna dei conservatori per imporre limiti all'immigrazione e al diritto d'asilo (il loro slogan "limitare l'immigrazione non è razzismo" indica bene la loro coda di paglia). I Tories propongono infatti che il parlamento imponga ogni anno un tetto all'immigrazione, il ritiro dalla convenzione di Ginevra del 1953 sul diritto d'asilo, una nuova polizia di frontiera ai porti e agli aeroporti, e controlli severi sui datori di lavoro che vogliono assumere stranieri. In risposta il Labour propone un sistema a punti di tipo australiano che favorirebbe gli immigrati con alte qualifiche tecniche, e una serie di multe ai datori di lavoro che assumono immigrati illegali: cioè il Labour ha accettato il terreno politico conservatore mettendo solo dei distinguo un po' vili.
La campagna xenofoba dei Tories ha avuto il curioso risultato di alienare i loro elettori tradizionali, gli imprenditori, che infatti, in un periodo di quasi piena occupazione e quindi di mercato del lavoro teoricamente in tensione, riescono a contenere la richiesta dei aumenti salariali grazie all'afflusso di immigrati poco pagati. Il Financial Times pubblica pagine e pagine sui benefici che l'economia trae dagli immigrati. La campagna Tory ha un riflesso antieuropeo perché oggi la manovalanza più a buon mercato viene dai paesi dell'est appena ammessi nell'Unione, come polacchi e romeni che hanno pieno diritto di venire a lavorare qui.
Gli unici a differenziarsi dal conformismo antistraniero sono i Libdem, che propongono di creare un'agenzia unica europea per il diritto d'asilo e di dare un lavoro agli stessi richiedenti. Appare qui un tratto curioso dei Libdem, e cioè che su molti temi sono più a sinistra dei laburisti: si sono opposti all'avventura irachena, si sono opposti alle leggi antiterrorismo di Blair impregnate da un'isteria liberticida, sono i più aperti sugli immigrati, propongono persino d'inasprire le tasse sui più ricchi per abolire le nuove salatissime tasse universitarie. In parte ciò deriva da vera convinzione, in parte da retorica elettorale (visto che sono certissimi non poter attuare il loro programma, poiché resteranno comunque il terzo partito), in parte da una crescente ostilità verso Blair. In realtà i Libdem continuano ad avere un target politico costituito dalla classe medio-alta agiata e di opinioni liberal.
Ma il risultato vero di questa elezione è che, comunque vada, e sempre a causa dell'Iraq, essa segna l'inizio della fine per la leadership di Tony Blair. Lo si vedrà domani a spoglio avvenuto.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …