Tommaso Ottonieri: Rossana Campo, due amori da raccontare. Anzi uno

09 Settembre 2003
Ho visitato, i primi giorni della più mitica marziana estate del secolo (Roma, Fondazione Baruchello), la mostra in cui Rossana Campo esponeva le tracce – olii su un 3 o 4 mq di tela – d’un suo narrare archetipico d’immagini e di chiazze: segni-bambini sparatissimi (donne angeli maiali gatti bambine e sessuatissimi tutti e comunque), emessi in posture frontali, per gigantografie disturbate; colore lucentissimo/opacizzato, steso su un fantasma d’infanzia: polimorfa-perversa. Titoli-affabulazione, più ancora che didascalie estese (La bambina a cui hanno rovinato la festa di compleanno; La bambina che scopre il campo di papaveri); tratti netti e prepotentemente schematici, annegati nell’impeto delle campiture; naiveté sparata in faccia, a bruciapelo, nell’imperativo sporcarsi del sogno sessuato dell’abnorme e reale (La ragazza col maiale, titolo-manifesto); sessi (femminili) graffitati, dunque, sopra ogni cosa, come un archetipo, un segno primario, come l’immagine gestaltica di ciò che resta (moltiplicativa) la verità di un corpo: la sostanza all’infinito autogenerante di corpi capaci di "farsi vedere dentro", farsi attraversare, la cui carnalità esplosiva e paradossale ha – insieme – della Olympia di Dubuffet (dice Carla Subrizi) e delle donne devianti/deviate di Almodóvar (dice Teresa Macrì). In uno spazio cioè dove l’identità di "gender" si gonfia fino a confondersi appunto per eccesso (al modo che l’ipercromatismo, qui, conduce alla negazione espressiva della forma).
Con orchestratura sapiente di voci – solo apparentemente ‘bruta’ (di ‘art brut’), in realtà, questa, morbido-geometrica, e tagliata tutta semmai di quei geometrismi invisibili di cui s’intesse il tempo musicale – è quanto avviene parallelamente nell’ultimo romanzo di Campo. L’uomo che non ho sposato: che sarebbe a pieno diritto un titolo – anche questo – per un ‘pezzo’ possibile in lei (lei che dipinge però solo bambine). La via del polifonico narrare, in Rossana è quella di una petite musique convertita in musica da camera elettrificata, o da eseguire unplugged con strumentazione arrotata in bassa fedeltà: tramatura, per maglie ritmate larghe, di un intersecarsi di voci parlate a sbalzo; una coralità insomma privata e condivisa, che si ricostruisce, quasi fenice, dalle ceneri d’un sole e sesso d’infanzia.
Qui, la voce, più che moltiplicarsi coralmente (che è il modo più tipico del suo dire), si sdoppia in un tempo duplicemente interrotto e ripreso. – Un tempo del dialogo, da un lato: un discorrere di parole (e uno scorrere, nuovamente, di corpi) intrapreso fra una lei e un lui d’un’antica storia adolescente (quando s’erano ritrovati, le famiglie immigrate dal Sud – in una provincia meschina di pregiudizi, ma a cui, pure, andrà ascritto il merito di favorire – giusto per questo – la loro diversità, una selvaggia, dis/incantata non-conformità all’esistente); un amore che si ritroverà, fatalmente imprevisto, sui ponti d’una Parigi che ormai (ciascuno dei due portando in cuore una sorta di ‘déracinement’ originario) i due abitano, senza ormai sapere dell’altro.
Ma poi, soprattutto, un tempo binario del narrare, dove due modulazioni, due temporalità, della stessa voce che si narra (della stessa storia, in realtà), scorrono parallele; la prima, attuale, che trascrive la vicenda in corso, facendosi carico di battute e ritmi dell’incontro; la seconda, che si riporta al 1974, è il libro che Rosi stessa (la protagonista) sta scrivendo, e dice di lei stessa dodicenne, ragazza un po’ chiatta e un po’ chiusa, dei suoi disagi e "ritardi" e, poi, dei suoi primi baci, il primo amore: cioè giusto dei mesi del primo incontro con lui, Salvatore, ora emerso per incanto dai quais. – E il narrare (di Rossana) è tutto lì, nella speculare apertura di quei due racconti; e nel possibile che si schiude, probabilmente, dallo spezzarsi/ricongiungersi di quella storia parallela.
Se non disegnato, Salvatore, il personaggio maschile è scalpellato da capo a piedi nel legno duro, con cura e con furia: una presenza tridimensionale, davvero, miticamente testosteronica: corpo grezzo e sgraziato, senza proporzioni, ma perciò tanto più vero, più vivo di carne. Un corpo incongruo capace di sbalzarsi davvero fuori dalla pagina: insostenibile, cioè (dentro e fuori ogni gender) da amare.
Ed è, questo, un magnetismo così palpabile, che un attore come Massimo Ghini s’è potuto proiettare nel personaggio e nella storia, al punto da decidere di provare a metterne su il film.

L'uomo che non ho sposato di Rossana Campo

Rosi guarda la Senna scorrere sotto di sé. È una giornata smorta di ottobre. Un uomo la vede pencolante contro la balaustra e la trascina via convinto di aver salvato una suicida. Le offre da bere e nel bistrò, guardandosi, i due si riconoscono. Tanto tempo prima, in una cittadina della riviera lig…