Marco D'Eramo: Amazzonia. L'occidente in maschera

09 Giugno 2005
Sono di una bellezza sconvolgente i diademi e le maschere di penne e di piume: quando sono dispiegati, misurano fino a un metro e mezzo di diametro. Nella sala semioscura dalle pareti nere, i colori intensi esplodono dal blu, al celeste, al turchino, fino al rosso, arancione, rosa, giallo, verde, nero. Maestosi, intessuti con fibre vegetali, agganciati con spine di porcospino, sono composti da penne e piume degli uccelli amazzonici, i cui nomi già di per sé sono un rompicapo: soprattutto ara (grande pappagallo) e hocco (o mutum, un gallinaceo), ma anche tucano, cassico (japu, una specie di corvo), spatola (colhereiro), jaburu, airone, agami (jacamin), cotinga (anambé), poiana, tuiu, pappagallo, aquila reale. In cima alle lunghe penne rosse e blu degli ara, ecco cucite piumette bianche di airone, pelurie di anatre. Modeste, ma sofisticate, collane Urubu-Kaapor sono composte di delicatissime piumette giallo canarino, come pelliccia dorata, da cui pende un trapezio di piume blu a cuore rosso mentre, all'angolo vicino al gancio, è appollaiata una forma a guisa di piccolo uccello blu, anch'essa composta di piume. In queste corone c'è una tale perizia tecnica, un tale senso estetico da mozzare il fiato. Ecco un sontuoso diadema Karajà rosa e nero con penne e piume di spatule, ara e jaraburu. O una corona radiante Txicão di piume gialle di cassico. Ecco una ghirlanda coprinuca rossa, blu e gialla Rikbaktsa. In alcune maschere le penne e le piume sono assemblate a replicare fiori sbocciati, giunchiglie, orchidee. Ampio un metro, un diadema Bororo è fatto di piume di ara e di hocco, di peluria di anatra, nervature di palma babaçu, fibre di palma tucum.

Ultimi superstiti
Queste meraviglie possono essere ammirate al Grand Palais di Parigi che accoglie fino al 27 giugno l'esposizione Brésil Indien, nell'ambito dell'anno dedicato al Brasile, per cui tutta Parigi sarà piena, fino a dicembre, di film, mostre, concerti brasiliani.
La mostra ci parla dei circa 500.000 indios amazzonici superstiti, che costituiscono lo 0,3% della popolazione brasiliana (172 milioni di abitanti). La mostra espone i resti di culture scomparse: i vasetti con cariatidi di Santarem (900 d.C-1600), alla confluenza tra Rio delle Amazzoni e Rio Tapajos; i tanga coprisesso che le donne e le ragazze Marajoura (400-1400) portavano solo in occasioni speciali nell'isola di Marajo, davanti alla foce; i manufatti Arua (1400-1700) sull'estuario amazzonico, o Guarita (1000-1500) vicino all'attuale Manaus, o Aristé (600-1720) tra il nord dell'Amapa e la Guyana francese.
E poi tutti i prodotti della vita quotidiana dei popoli che ancora vivono nella e della foresta, oggetti che, come i fantastici diademi pennuti e piumosi (che fanno parlare di "civiltà della piuma"), mostrano tra l'altro uno straordinario patrimonio di conoscenze tecniche.
Solo che c'è un che: sulle rive dell'Araguaia, i Karajà, che hanno fabbricato la sontuosa corona rosa e nera, erano solo 2.500 nel 1999. I Bororo, che Claude Lévi-Strauss aveva studiato nella sua prima missione nel Mato Grosso (1935-36), erano ormai solo 1.024 nel 1997. Nel nord-ovest del Mato Grosso, i Rikbaktsa erano 909 nel 2001. Nell'alta foresta amazzonica, gli Urubu-Kaapor, con le loro deliziose collane, erano 800 nel 1998; e, nei dintorni del basso Xingu, gli Txicão erano ridotti a 317 nel 2002.
E la lista potrebbe continuare. D'altronde, se in questa sola esposizione - tutt'altro che esaustiva, solo un campionario esemplificativo - sono però presenti 41 culture su una popolazione complessiva di 500.000 superstiti, risulta evidente che nel giro di una generazione molti di questi popoli saranno ormai estinti, e sarà persa per sempre la loro cultura, lingua, religione. Nel parco indigeno dello Xingu, nel 2002 i Kamayurà erano solo 355, gli Yawalapiti erano solo 208, i Mehinàku solo 199; nel nord-est del Mato Grosso gli Enawenê-nawê erano 320 nel 2000; sul basso Xingu i Juruna erano solo 278 nel 2001; a sud della città di Porto Velho, nello stato di Rondònia, i Karitania erano ridotti a 180 persone nel 2000; sempre nel parco dello Xingu, gli Asurini erano 120 nel 2004 i Nafuquá erano 105 nel 2002.
Quest'esposizione esaspera fino all'insostenibile quella che è la caratteristica propria dello sguardo antropologico, lo sguardo che vede davanti a sé un mondo che si estingue: il fatto stesso che l'antropologo sia giunto a vedere i Nambikwara (cui Lévi-Strauss deve tanto per la costruzione del suo pensiero e che nel 1999 erano 1.142), significa che da quel momento in poi i Nambikwara non saranno mai più quello che erano, perché sono entrati «in contatto». Una storia interessante dell'ultimo «primo contatto» avvenuto sul nostro pianeta l'ha scritta Jared Diamond nel suo ultimo libro Collapse, non ancora tradotto in italiano.
D'altronde questo sentimento era ben presente a Claude Lévi-Strauss quando nel 1960 pronunciava la sua lezione inaugurale (Éloge de l'anthropologie) al Collège de France (traduzione italiana in Razza e storia e altri studi di antropologia, a cura di Paolo Caruso, Einaudi, 1967): "Permettete dunque miei cari colleghi, che dopo aver reso omaggio ai maestri dell'antropologia sociale all'inizio di questa lezione, le mie ultime parole siano per quei selvaggi, la cui oscura tenacia ci offre ancora modo di assegnare ai fatti umani le loro vere dimensioni: uomini e donne che, nell'istante in cui parlo, a migliaia di chilometri da qui, in una savana rosa dai fuochi di sterpi o in una foresta grondante di pioggia, fanno ritorno all'accampamento per dividere un magro nutrimento, ed evocare insieme i loro dei; quegli Indiani dei tropici, e i loro simili sparsi per il mondo, che mi hanno insegnato il loro povero sapere in cui consiste tuttavia l'essenziale delle conoscenze che voi mi avete incaricato di trasmettere ad altri; ben presto ahimé, destinati tutti all'estinzione, sotto il trauma delle malattie e dei modi di vita - per essi ancora più orribili - che abbiamo portato loro; e verso i quali ho contratto un debito di cui non mi sentirei liberato nemmeno se al posto in cui mi avete messo, potessi giustificare la tenerezza che m'ispirano, e la riconoscenza che ho per loro, e quale, fra voi, vorrei non cessare di essere: loro allievo e loro testimone".
Non a caso infatti l'ultima sala dell'esposizione è dedicata al materiale raccolto da Claude e Dina Lévi-Strauss nelle loro due missioni in Amazzonia (la seconda del 1938-39). In questa sala, per chi, come me ha ben conosciuto Lévi-Strauss (e la sua straordinaria, tagliente intelligenza) solo negli anni della vecchiaia, colpiscono le immagini dell'antropologo da giovane, ma soprattutto i rudimentali filmati in bianco e nero, che vengono dopo i sofisticati filmati a colori, girati dalle moderne équipes di antropologi, proiettati nelle sale precedenti. Come già succede analizzando le collezioni storiche del National Geographic, salta agli occhi come il bianco e nero trasmetta un principio di realtà (e di estraneazione) incomparabilmente superiore all'immagine a colori. I riti possono essere simili, le suggestioni imparagonabili. Forse dipende dal fatto che, come le culture che riprende, il bianco e nero è già estinto e fa già parte del mondo che fu.
Questa struggente sensazione di star toccando con mano la finitezza temporale delle umane civiltà è insita nelle fondamenta stessa dell'etnologia, come scrive quell'altro grande astrattizzatore dell'antropologia che è Bronislaw Malinowski. Proprio nella prefazione del suo classico Gli argonauti del pacifico occidentale (1922) scriveva: "L'etnologia si trova nella tristemente ridicola, per non dire tragica, posizione che proprio nel momento in cui comincia a mettere in ordine la propria bottega, a forgiarsi i suoi strumenti, a essere pronta al suo compito designato, l'oggetto stesso del suo studio si dilegua con disperante rapidità. Proprio ora, quando si sono plasmati i metodi e i criteri dell'etnologia scientifica, quando uomini pienamente addestrati hanno cominciato a viaggiare nelle terre selvagge e a studiare i loro abitanti - costoro muoiono via sotto i nostri propri occhi (these die away under our very eyes) (...) Per quanto al presente vi sia ancora un vasto numero di comunità native disponibili per uno studio scientifico, tra una generazione o due saranno praticamente estinte".
Perciò se mantiene l'indispensabile sospetto su di sé e sulle proprie motivazioni, il visitatore non capisce mai se gli accoramenti e i cortocircuiti mentali che lo colgono lungo il percorso dell'esposizione sono dovuti agli oggetti dello sguardo o al suo stesso sguardo. Non è mai sicuro cioè di non star compiendo quella strana operazione mentale, tante volte reiterata nel XX secolo, che pone il sé all'esterno di sé. Solo che Feuerbach vedeva in quest'operazione la "costruzione di Dio", mentre la civiltà contemporanea l'ha usata per "la costruzione dell'Altro".
Il dubbio è che tutti i grandi interrogativi irrisolti - non detti e censurati - del moderno uomo occidentale tecnologico vengano addossati a queste culture in via di estinzione: non a caso per Lévi-Strauss i Nambikwara e i Bororo sono stati il grande specchio in cui osservare la civiltà occidentale.
La raffinatissima arte con cui, in fondo alla foresta, gli indios decorano i propri corpi con disegni e tatuaggi, anzi l'idea fondante che il proprio corpo transeunte è un supporto d'arte e magia, tutto ciò non può non indurre un paragone con la diffusione del tatuaggio e del piercing tra la gioventù laica e consumista (sull'argomento c'è un libro di Betti Marenko).
Le stanze con le grandi maschere (di scorza di ficus dipinta con pelli di animali, denti di roditori, peli di scimmia), una a forma di pesce a bocca aperta, un'altra a giaguaro, un'altra ancora ad animale mitico, perfino un rospo gigante a coprire tutta la testa suscitano un cortocircuito tra le riflessioni sul sacro di Mircea Eliade e la sociologia di Erving Goffman sulla vita quotidiana come rappresentazione. Ma che in realtà, guardando gli indios, noi stiamo in effetti guardando noi stessi nel loro nudo specchio amazzonico, diventa incontrovertibile quando la mostra affronta il tema più autocensurato della nostra modernità, quello della morte e del culto dei morti.

Le teste del nemico
In una sala sono esposte due impressionanti teste umane mummificate dagli indios Munduruku (10.650 persone nel 2002) nel bacino del Rio Tapajos. La didascalia spiega che i Munduruku erano una civiltà guerriera: la guerra era molto importante perché serviva a raccogliere le teste dei nemici vinti. Al ritorno dalla spedizione guerresca, ogni testa era vuotata, lavata, affumicata, impregnata di un olio rosso. La lavorazione avveniva in tre tappe. La prima tappa era un rituale chiamato di «decorazione delle orecchie»: i capelli erano tagliati parzialmente, bocche e orecchie ornate di lunghi fili di cotone, gli occhi ricostituiti con resina e denti di scimmia. Ogni clan aggiungeva per decorare piume di tipo diverso. Nella seconda fase la pelle era scorticata e il nudo cranio veniva sospeso nella casa degli uomini. Nella terza fase i denti erano montati su una cintura di cotone che veniva indossata nei rituali di iniziazione maschile.
Guardando i ciuffi di fili e di peli che fuoriescono da bocca e orecchie, ammirando la vezzosa parure di piume (come insalatina fresca) che orna la capigliatura delle teste mummificate, l'animo comincia a vagare sui perché e i per come, sul significato che aveva, su cosa voleva dire lavorare con tanta cura artigianale sul cranio del nemico vinto.
Ma l'apice è raggiunto davanti ai vasi dell'estinta cultura Santarem, vasi che, ci viene spiegato, "erano usati per servire allucinogeni durante i rituali sciamanici". Gli indios di Santarem non seppellivano i loro morti nelle urne funerarie come invece facevano altre culture amazzoniche, ma li incenerivano e mescolavano le loro ceneri a bevande fermentate. Perciò alcuni vasi erano usati per letteralmente bere i propri morti.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …