Le invenzioni di Paolo Nori

06 Luglio 2005
Thomas Eliot dice che la letteratura è un "bosco sacro" nel quale si scavano diversi sentieri: facili, difficili, impervi. La nostra esperienza di lettori ci fa pensare che più il sentiero è difficile, più la scrittura sarà alta, vera, ma quando il sentiero diventa impervio aumentano i rischi, per lo scrittore che lo percorre, di non essere compreso; peggio, di essere frainteso; oppure di cadere dal sublime al radicolo, dall'espressività intensa, al rantolio che si autopromuove romanzo. Per non correre rischi, tanti, troppi, ottimi scrittori italiani si limitano a percorrere i sentieri difficili del "bosco sacro" evitando, come la peste, quelli impervi. Questo significa scrivere sempre ciò che il lettore già conosce, ciò che si aspetta con piccole varianti senza importanza. Attirarlo (ma non allertarlo) con effetti spacciati per innovativi, ma che sono solo "speciali" come quelli del cinema: trucchi per far spalancare la bocca, ma non impegnare il cervello. Tutto, insomma, meno che chiedere al lettore l'unica cosa che il lettore dovrebbe avere interesse, piacere, di fare: interrogare il testo. Fra i pochissimi scrittori italiani che s'inerpicano lungo i sentieri impervi, c'è Paolo Nori. Non solo non si tira indietro di fronte all'arrampicata, ma non cade, centra la qualità, e come nel caso di questo suo recentissimo romanzo, va avanti, sviluppa nuovi temi, varia il linguaggio. I precedenti romanzi di Nori, per citarne alcuni, il dimenticato racconto d'esordio Le cose non sono le cose, Bassotuba non c'è, Diavoli, Si chiama Francesca questo romanzo, Pancetta; tutti quelli, genialissimi, divertentissimi e profondi che hanno per protagonista il suo alter ego Learco Ferrari, sono scritti in una specie di presa diretta della vita registrando "la cosa che accade" nel momento in cui accade; dove il più narrativo è dato dal fatto stesso di registrare, dalla decisione di ricordare proprio quella "cosa" e di scriverla e tramandarla. Qui il senso narrativo che rende specifica la scrittura di Nori, è la decisione di far permanere un atto "stropicciato", di tutti i giorni, nella (supposta) eternità della scrittura. Lo fanno anche altri narratori: la differenza in Paolo Nori, è il linguaggio che nel momento in cui incanta, disincanta; nel senso che porta altrove, nel luogo ultimo dove si originano comportamenti, e reazioni mentali, scarnificando fino a un grado zero di grande divertimento i nostri processi linguistici.
Sto dicendo tutto molto seriamente, per romanzi che sono trascinanti nella comicità: balzani ma veri, con dentro un poco di Dario Fo e di Zavattini, nell'invenzione della vita, e Nori è di Parma, non per nulla. Ma non c'è nella sua scrittura nessuna operazione di recupero, si apparenta direttamente a quella, attualissima, di Gianni Celati e Ermanno Cavazioni, il che vuol dire che dietro c'è Italo Calvino.
C'è una piccola leggenda su come nascono i romanzi di Paolo Nori. Si dice che l'autore tenga tutti i giorni un diario in cui annota tutto ma proprio tutto quello che gli accade. E che da questo materiale grezzo selezionerebbe, poi, il nucleo narrativo del romanzo e sarebbe dalla rielaborazione di quegli appunti che si svilupperebbero vicende, personaggi e linguaggi. Non so se sia vero, ma è plausibile.
C'è un filo rosso, che lega i romanzi di Nori uno all'altro ed è l'esortazione che, sottesa al testo, l'autore ripete ad ogni libro, a fare esercizio, nella vita quotidiana, della teoria critica: ci invita a mettere in discussione tutto ciò che facciamo, ogni persona che incontriamo, tutto ciò che pensiamo. Ci invita ad essere ingenui, cioè diretti nel vedere e scaltri cioè consapevoli che, come appunto dice il titolo del suo primo libro Le cose non sono le cose. Ma, dice Nori, la tendenza illusionistica del mondo, non la combattiamo con efficacia se usiamo le armi della sofisticazione, al contrario dobbiamo usare i nostri sensi in maniera elementare. Diceva Pascal: ‟La profondità è nella superficie”.
Per cogliere questa superficie profonda Paolo Nori usa un linguaggio che ha per protagonista il balbettio, non intellettuale, che anzi, il contenuto è forte, deciso e preciso; ma un balbettio lessicale, grammaticale, che riproduce il parlato più distratto veicolando però un contenuto alto: sta qui la forza eversiva dei romanzi di Paolo Nori che si è trovato anche, uno strano laterale maestro nel Pirandello che una volta confessò: ho sempre combattuto con le parole. E Nori ha commentato: ‟A me piace così tanto questo fatto di uno scrittore che combatte le parole, come un musicista che combatte la musica o un pittore che combatte i colori, o un fotografo che combatte la luce, mi piace così tanto che lo trovo fin commovente”.
Così nel suo ultimo romanzo Ente nazionale della cinematografia popolare, Nori mette in scena un regista di documentari scagliato per il mondo che combatte insieme alle immagini, la realtà che incontra. Quattro film, quattro viaggi, in cui il lettore incrocia, i dettagli minori, gli sfondi non consunti, le persone "che non contano niente". L'America del Delta del Mississippi, Marrakech, la Russia due volte. E quattro intervalli, quattro ritorni a cinepresa spenta: quattro meditazioni sul senso, in fondo, del romanzo stesso.
Ente nazionale della cinematografia popolare segna un cambiamento nel lavoro di Paolo Nori che ha scritto: ‟E' un libro che va nella direzione dell'asciuttezza, dell'austerità: è fatto di citazioni, di dialoghi, di pezzi di guide turistiche, di cartoline, di teologie di paese, di lingue di paese, di cosmografie personali, di cartelloni pubblicitari, di recriminazioni”.
Paolo Nori è un provocatore. Elegante, un po' alla maniera di Voltaire, ma di un Voltaire alla rovescia che cerca l'autenticità attraverso la verità della confusione che però confusione non è perché non c'è arbitrio, ma coerenza. Come nella nota che chiude il romanzo dove la polemica culturale che è stata sottopelle per tutto il testo emerge: ‟Da un po' di tempo in qua - conclude Nori - sembra che la massima riuscita per un libro, sia diventare un film. È talmente forte, questa vocazione che molti libri alla fine hanno anche i titoli di coda. Io poco tempo fa, quando mi è capitato in mano un libro con i titoli di coda, ho pensato che era come se andavo al cinema e alla fine c'era l'indice. È come se i libri da soli fossero una forma intermedia, se aspirassero tutti ad andare a finire nel serbatoio della cinematografia nazionale”.

Ente Nazionale della Cinematografia popolare di Paolo Nori

Regista spaesato e improbabile, spedito in terre lontane a caccia di suoni, odori e immagini da un fantomatico Ente Nazionale della Cinematografia Popolare, Paolo Nori ci fa scorrere dinanzi agli occhi le vite non illustri, i dettagli minori, gli sfondi non abusati che soli sanno ricreare il fascin…