Gianni Riotta: “Europa, corri alle armi contro il terrorismo”. Parla James Hoge, direttore di “Foreign Affairs”

13 Luglio 2005
La strage del 7 luglio vista dagli Stati Uniti. Parla James Hoge, direttore di ‟Foreign Affairs”: ‟Dobbiamo restare all’erta. Dopo New York, Madrid e Londra non contate sulla quiete”. È possibile una via ‟negoziale” con i quadri di Al Qaeda? ‟No. Non crederanno mai alla politica”. Quando finirà? ‟Siamo ben lontani dal vincere questa guerra, ma non la stiamo perdendo” ‟La profonda differenza tra Stati Uniti ed Europa sulla strategia contro il terrorismo riguarda la sfera militare: gli europei non sono aggressivi nella risposta armata ai gruppi del terrore internazionale. L’intesa delle intelligence è buona, il rapporto tra i leader politici migliorerà , ma l’Europa deve capire che non si vince la guerra al terrorismo senza eserciti” : James Hoge, direttore della rivista ‟Foreign Affairs” non ha dubbi, accanto alle armi della critica occorre la critica delle armi. L’attentato di Londra rimbalza nell’elegante townhouse, la palazzina bianca che ospita a Manhattan la sede del Council on Foreign Relations, il più esclusivo circolo di politica internazionale. Qui i padri dell’establishment americano, Marshall, Bohlen, Bundy, McNamara, Acheson, Kissinger, dettano la strategia politica e diplomatica degli Usa. E i loro saggi, dibattiti e polemiche vengono raccolti nei fascicoli grigi, sempre uguali, di Foreign Affairs, indispensabile a chi vive del mondo, come le Guide Michelin per chi vive di gola. Nel salone dei soci, tra tappeti e tele antiche, una teca custodisce il numero con l’articolo firmato ‟Mister X” , il saggio del diplomatico George Kennan che stilò i piani per ‟contenere” l’Urss, definendo mezzo secolo di Guerra Fredda. James Hoge è il direttore di Foreign Affairs, elegante nel gessato, non esita ad arrivare in ufficio, se capita, con un giubbotto di cuoio da aviatore. Capelli ravviati, sguardo lucido, fu incluso dalla rivista Vanity Fair nella ‟classifica degli uomini più belli d’America”. Di certo è uno dei più saggi sullo stato del pianeta, chiamato a condensarne guai e speranze, sei volte l’anno, nei volumi di FA. ‟Mi ha colpito nella reazione inglese all’attacco contro la metropolitana il controllo politico delle emozioni. E’un piano preparato in anticipo e messo in pratica con rara efficacia. Le Borse hanno subito ripreso, non c’è stato panico non solo per l’aplomb britannico, ma per una gestione che ha negato alla propaganda del terrore di infliggere, oltre a morti e feriti, choc psicologico. Abbiamo tutti da imparare”. Gli esperti dicevano ‟che al Qaeda colpirà la Gran Bretagna è certo, si tratta di capire quando”. Chiedo a Hoge se è d’accordo, reagisce con prudenza: ‟Il marchio è al Qaeda, ma gli ordigni abbastanza rudimentali mi fanno parlare, per ora, solo di marchio. Quel che è sicuro è che cellule terroristiche, vedremo se di infiltrati stranieri o di cittadini europei, sono ancora attive. Colpiranno di nuovo, negli Stati Uniti come in Europa, e dobbiamo restare allerta, non abbassare la guardia. Dopo New York, Madrid e Londra non contate sulla quiete”. L’11 settembre è stata una dichiarazione di guerra agli Usa, il 7 luglio una dichiarazione di guerra al mondo, durante il G8 che varava aiuti all’Africa e il giorno dopo la proclamazione di Londra capitale olimpica. E’così? ‟Sì. Vedremo se i leader politici, da Bush, a Blair, Schröder e Chirac, saranno capaci di un cambio di marcia, lavorando insieme, a ranghi più serrati, contro l’internazionale del terrore. La collaborazione degli apparati di intelligence è migliore di quanto spesso non appaia all’opinione pubblica. Servono però leggi meno obsolete, burocrazie meno lente. Negli Stati Uniti cittadini e politici hanno accettato che, per anni, il terrorismo sarà una minaccia e dovrà quindi avere un posto centrale nei nostri programmi, bilanci, agende e pensieri. In Europa qualcuno pensa che sia possibile esorcizzare il dilemma, rinviarlo. Così è stato dopo l’11 settembre 2001, fino al risveglio di Madrid 2004. Poi di nuovo acquiescenza fino al 7 luglio. Adesso non ripetete l’errore, non contate sulla tregua”. Parecchie reazioni, europee come americane, insistono a imputare l’ondata terroristica alla guerra in Iraq, come se il ritiro potesse cancellare la jihad. Hoge non è persuaso: ‟Discutere di idee contro repressione armata, come se si trattasse di opposte strategie per debellare la jihad non ha senso. Con i quadri di al Qaeda non sarà mai possibile alcun negoziato, vanno braccati, arrestati, sterminati. Non crederanno alla vita politica attiva, mai. Dobbiamo però impegnarci a risolvere problemi economici, sociali, o politici come il Medio Oriente, per impedire che tanti ragazzi siano arruolati da soldati semplici del terrore. Ci sono progetti umanitari efficaci contro Al Qaeda, la svuotano. E’vero che in Iraq arrivano i jihadisti, ma ci sono stati progressi politici veri. Il Paese non è pacificato, ma non abbiamo perso la guerra. I progressi si vedranno nel futuro, dobbiamo stare attenti piuttosto a non perdere il sostegno dei cittadini americani. E’il nostro problema strategico, niente vittoria senza consenso. Il problema europeo è darsi una dimensione militare contro il terrore. Siamo ben lontani dal vincere la guerra al terrore, ma non la stiamo perdendo. Serve una combinazione di eserciti, intelligence, indagini finanziarie, polizia e iniziativa politica per la vittoria. Spero che i nostri leader lavorino meglio insieme, magari dopo il cambio della guardia a Berlino e Parigi. Solo con una strategia di lunga lena ce la faremo. Non ci sono scorciatoie. L’ideologia della morte non cambierà, né darà requie, prendiamone atto”. Due teorie si contendono le coscienze nella battaglia delle idee: Samuel Huntington persuaso del suo ‟scontro delle civiltà” , Occidente contro Islam, e Gilles Kepel, assertore della tesi della ‟Fitna”, la guerra civile islamica tra tolleranti e intolleranti. Hoge conclude proponendo un terzo punto di vista: ‟Ci sono, da secoli, elementi di conflitto tra cristiani e musulmani, ma stiamo assistendo a una guerra civile nel mondo islamico. Due terzi dei musulmani non sono arabi, vivono nel Sud-Est asiatico e non sono affatto sul sentiero di guerra contro l’Occidente. Spesso gli attacchi contro Usa ed Europa scaturiscono dall’appoggio che noi occidentali diamo ai regimi autoritari del mondo arabo. Ha ragione la segretario di Stato Condoleezza Rice a chiedere democrazia in Egitto e Arabia Saudita, ma ricordiamoci che la democrazia non convertirà i jihadisti irriducibili: occorre batterli in campo aperto ‟ .

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …