Gianni Riotta: Le armi e le idee contro il terrorismo

15 Luglio 2005
Nella guerra al terrorismo la nostra maggiore debolezza è la nostra più grande forza, la breccia più ampia nelle nostre mura è l’area più preziosa e l’arma che sembra spezzata si rivelerà infine micidiale. È la democrazia che ci rende vulnerabili agli attacchi, sono le nostre società libere, aperte, che permettono ai dinamitardi di nascondersi, muoversi, camuffarsi ma è proprio il dinamismo della libertà che dobbiamo mantenere. Se ci irrigidiremo in una società autoritaria non solo avremo perduto il bene prezioso che difendevamo, diventando simili al nemico, ma soprattutto smarriremo il libero scambio di informazioni che ci fa, dalla tecnica alla politica, più duttili.
Per questo è futile e pericoloso il dibattito ormai solo ristretto ai più angusti quartieri della provincia italiana, se il terrorismo si batta con le armi o le idee, con la repressione militare o diffondendo sviluppo, arrestando i colpevoli o portando pace e sicurezza, per esempio, tra Israele e Palestina. È come se voi discuteste l’opportunità di alternare farmaci e cibo ad un malato, scegliendo se nutrirlo o curarlo, come se le due alternative non fossero entrambe indispensabili. Ostinarsi a negare la necessità delle armi, rischia di riportarci al velleitarismo imbelle di Srebrenica, dove, come ha detto Mark Malloch Brown, inviato del segretario dell’Onu Kofi Annan, non certo un guerrafondaio, la tragedia degli ottomila morti innocenti scaturì da ‟una filosofia di non violenza e neutralità del tutto inadatta alla guerra”.
Ecco, teniamo a mente questo principio, non violenza e neutralità non servono in guerra, Gandhi la vinse perché aveva davanti l’Inghilterra post-imperiale: contro Hitler il suo digiuno sarebbe finito in un lager. La neutralità svizzera è garantita dai vicini democratici, in un’Europa nazista o sovietica sarebbe stata ingoiata in un boccone. Ma in guerra, e qui ha ragione chi parla di idee e valori, conoscere il nemico è la sola chiave di vittoria, parola di Sun Tzu e Clausewitz, maestri di strategia. Gli attacchi della Jihad salafita sono stati fin qui condotti, in maggioranza, da terroristi provenienti dall’Arabia Saudita e altri Paesi non ostili all’Occidente, Egitto, Turchia, Pakistan, Indonesia, Marocco (rilevamenti del professor Robert Babe dell’Università di Chicago). A loro si uniscono, così sembrano provare le indagini a Leeds, dopo la strage di Londra, quelli che il saggista Robert Leiken definisce sulla rivista Foreign Affairs ‟i musulmani europei in rivolta”: delusi per la mancanza di integrazione, disoccupati.Che cosa unisce i due eserciti? La convinzione che cristiani ed ebrei si debbano ritirare dalla terra dell’Islam, dall’Afghanistan, dall’Iraq, da Israele. Non dovrebbe essere evidente, allora, sia al governo che all’opposizione, che le due diverse radici vanno recise in modi diversi? I terroristi militanti non possono che essere piegati dalla forza, e contro di loro la non violenza è inerme. Ma nelle periferie delle metropoli europee, dove i giovani musulmani non riescono ad integrarsi per mancanza di scuole e lavoro, spesso gli imam fondamentalisti finiscono per essere la sola identità possibile. Forza e ragione, solo quest’arma a doppio taglio vincerà contro la rivolta della Jihad.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …