Gianni Riotta: Il diluvio sulla città dei meticci

30 Agosto 2005
Piove anche sulla tomba di Marie Leveau, la sacerdotessa voodoo, al vecchio cimitero di San Luigi, otto isolati dal fiume in piena. Le tombe del camposanto, fondato nel 1789, quando nella madre patria francese si accendeva la grande Rivoluzione, sono case. Il San Luigi è una città, New Orleans degli Spiriti. Non si seppelliscono i morti in terra, troppo vicino Ol’ Man River, il vecchio fiume Mississippi. Provate a scavare una fossa, perfino in tempi di siccità, come quella maledetta del 1988 quando le chiatte si affollavano ferme sul sabbione grigio e dal letto del fiume riemergevano i relitti del pirata Dominique You, che nel 1815 aiutò gli americani a mettere in rotta le truppe inglesi. Impossibile: Ol’ Man River, il Mississippi, sgorga dalla buca con la forza e l’avidità con cui si dice ancora a New Orleans abbia ingoiato la tenera Ylenia, figlia di Al Bano e Romina. No, i morti a New Orleans finiscono in una casa, e la casa più visitata del vecchio San Luigi, ogni giorno adornata di fiori freschi e decorata di graffiti romantici, è quella di Marie Leveau. Cattolica, devota, divenne principessa del voodoo, la religione che coniuga le ancestrali fedi dell’Africa nera degli schiavi con i riti e le devozioni cattoliche. Oggi, nelle metropoli del nord, sotto l’influsso degli emigranti dai Caraibi e Cuba, il voodoo - anche nella forma nera e malefica, il palo mayombe - è tra le religioni in crescita più rapida, ma solo Marie Leveau sembra poter proteggere il milione e 337.726 cittadini di New Orleans, Nouvelle-Orléans come si chiamava quando Jean-Baptiste de Bienville ne suggerì la fondazione a Parigi, nel 1717, dalla forza bruta dell’uragano. Perché nella città che scappa davanti all’ennesima bufera della sua storia lunga quasi 300 anni tutto è come nella tomba di Marie, misterioso, meticcio (sorry presidente Pera!), multiculturale da prima che la parola fosse discussa nei sofisticati dipartimenti di filosofia e deprecata dalla stampa xenofoba. Marie Leveau era una quadroons aveva cioè un quarto di sangue bianco nelle vene africane. I francesi, pur lasciando nella sensuale città che le razze si mischiassero senza la furia puritana del vicino Sud americano, avevano classificato 60 diversi meticciati tra bianchi e neri, dagli africani ai bianchi purissimi. «Le prostitute più desiderate» ricordava lo storico del jazz Arrigo Polillo «erano le octoroons, che avevano nel corpo creolo un ottavo di sangue africano». Oggi New Orleans è una città del Sud vibrante, non ha più alle spalle il lebbrosario di Carville, con le sue tombe senza nome perché i malati non volevano marchiare le famiglie d’origine con il morbo di Hansen, allora maledetto. È il secondo porto negli Stati Uniti per merci importate - con la nuova tecnologia della sicurezza contro un possibile container kamikaze -, ha industrie farmaceutiche, una grande università, la squadra di football dei Saints e perfino la politica s’è ripulita dai tempi del governatore populista Huey Long, quando si diceva «per sconfiggerlo dovrebbero trovarlo a letto con una ragazza morta o un ragazzo vivo». Eppure basta girare a piedi dal cimitero di San Luigi al Vieux Carré, il quartiere francese, a Bourbon Street, magari fare follie nel Carnevale più lungo del mondo, che comincia per l’Epifania e finisce nel Mardi Gras quando turisti, jazzisti, perditempo, vagabondi, vecchi musicisti, cuochi e belle ragazze ebbre cercano la serata della vita, per capire che New Orleans non è cambiata. È, stesa al sole come il suo cimitero, davanti al delta del Mississippi, una città capitale, che ha storia, cultura e non le divide con nessuno. La città dove Louis Armstrong bambino pativa la fame e soffiava nella cornetta per pochi centesimi, come i suoi emuli vegliardi della Preservation Hall. I sandwich si chiamano muffolettas, nome importato dai marinai palermitani, come i panini dolci con l’olio e le acciughe che si consumano all’alba del Giorno dei Morti. La cucina è cajun, o creola, o africana, o francese, o tutte insieme. Nata con i francesi, passa nel 1762 agli spagnoli, torna a Napoleone nel 1800 e tre anni dopo viene venduta agli americani con la Louisiana, New Orleans mette in tavola il multiculturalismo in un solo piatto, il gumbo, la jambalaya, i beignets, la zuppa di alligatore. L’okra, verdura africana, con andouilles, le salsicce piccanti, il riso spagnolo allo zafferano, le spezie degli indiani Choctaw, il pesce salato, affumicato, saltato in padella, i tazzoni di café au lait fumanti. I cajuns, eredi dei francesi profughi, con la loro musica a nenie struggenti e la cucina che appassiona adesso gli chef come Paul Prudhomme, sono americani-latini-europei-indigeni, vicini di casa di africani e latini e caraibici. Ecco la città che affronta l’uragano. Con il sistema di drenaggio del ‟Sewerage and Water Board” che pompa disperatamente, da quando, nel 1965, l’uragano Betsy persuase i corrotti amministratori locali a correre finalmente ai ripari. Perché le piogge gonfiano il Mississippi e il Lago Pontchartrain, che letteralmente incombono, come spiriti voodoo, sulla città più bassa. New Orleans conta oggi sui computer che regolano le acque, ascolta Bush invitare all’evacuazione, segue su Internet le previsioni del tempo, si muove con languida disciplina, ma sotto sotto guarda al passato remoto, a Marie Leveau, alle preghiere misteriose che le hanno fatto superare due guerre, l’invasione nordista dell’ammiraglio Farragut, pestilenze, malaria, febbre gialla e colera, innumerevoli cicloni. Che il buon tempo ritorni, è il proverbio più diffuso in città: passerà, perché dai carri del Martedì Grasso devono volare le collanine di perle finte, magiche, capaci di concedere a chi le acchiappa, amore, felicità, salute. Parola di Marie Leveau.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …