Gianni Riotta: “Sinistra, convinciti: il mercato crea ricchezza per tutti”. Colloquio con Bill Emmott

24 Ottobre 2005
Creare un partito democratico italiano e lasciarsi alle spalle la tradizione del socialismo europeo? E ti aspetti che dia parere favorevole, io, l’ultimo comunista, il piccolo Lenin?”. Ride di gusto Bill Emmott, direttore del settimanale inglese ‟The Economist”, e si liscia la barbetta che, con la calvizie, lo fa assomigliare al rivoluzionario russo. ‟Da quando il vostro premier Silvio Berlusconi ha letto la famosa copertina in cui lo definimmo unfit, non all’altezza di governare l’Italia, ci insegue con due cause legali e mi definisce "comunista". Dura per noi”, dura per il periodico che da 1843 segue la filosofia del fondatore, il cappellaio scozzese James Wilson, libero mercato, liberi commerci, minima ingerenza dello stato nell’economia. Oltre un milione di copie vendute, 800.000 fuori dall’Inghilterra, ‟The Economist” si autodefinisce ‟estremista di centro”. ‟Le primarie italiane che hanno visto la vittoria di Romano Prodi - argomenta Emmott - pongono all’ordine del giorno la questione del partito democratico. I leader capaci di affrontarla non mancano, l’ex commissario europeo, Rutelli e Veltroni, Piero Fassino. Il dilemma che hanno davanti parte dalla fine del comunismo ma si sovrappone alla crisi della socialdemocrazia classica per le difficoltà dello stato sociale e la nascita del mercato globale. Il nuovo partito democratico italiano deve superare l’esame che alcune socialdemocrazie hanno già affrontato con successo”.
Emmott, di passaggio a Nizza per una conferenza, veste un abito italiano, torna da Tokyo verso Londra, vero ambasciatore del mondo globale. A una sinistra italiana incantata da un passato che non torna, Emmott offre il balsamo del pragmatismo: ‟Coalizzata in partito democratico la sinistra deve fare una scelta storica, accettare l’idea che il mercato non distrugge ricchezza per le classi meno abbienti, ma la può creare. La socialdemocrazia ha dovuto battersi a morte per non essere sconfitta, dopo la crisi dello stato sociale. Qualcuno ce l’ha fatta, magari non cambia nome ma certamente ha cambiato politica. Tony Blair e Gordon Brown si chiamano ancora laburisti, ma quando la casa automobilistica Rover ha chiuso i battenti, con 5000 licenziati sotto elezioni, hanno reagito con serietà. In altri tempi la Gran Bretagna si sarebbe fermata, adesso si sa che i licenziati troveranno un nuovo lavoro”. In quali Paesi la transizione dall’alveo socialista alla pratica democratica all’americana ha avuto più successo, oltre che a Londra?
‟In Scandinavia, dove le conquiste sociali sono state aggiornate per permettere il successo delle nuove tecnologie. Ma guarda anche alla Germania. Gerhard Schröder, difendendo dai comizi a spada tratta le bandiere socialdemocratiche, ha poi però praticato le riforme economiche indispensabili al rilancio dell’economia. Ha perso le elezioni perché gli elettori hanno bocciato la contraddizione di un partito dove la sinistra criticava le riforme. Gli elettori non reagiscono più ai dettagli del programma. Guardano al leader e al partito: se vedono frizioni, stanno alla larga”. Francia e Spagna però si tengono strette il modello socialista, Zapatero in Italia è icona da film: ‟Sì, ma la Spagna di Zapatero resta molto vivace economicamente e Dominique Strauss-Kahn, in Francia, ha già maturato posizioni democratiche. C’è in corso in tutti i partiti socialisti una guerra civile tra chi lavora dentro il mercato per creare ricchezza e chi invece crede ancora che il mercato vada protetto dalle "locuste", come il neoministro socialdemocratico tedesco Müntefering ha definito gli investitori stranieri”. Da sempre è viva nella sinistra italiana la suggestione americana, Roosevelt, John e Bob Kennedy, Bill Clinton. Un albero genealogico adatto a noi? ‟Assolutamente no. Gli Stati Uniti hanno spostato tanto a destra l’asse del dibattito politico che ogni paragone con l’Italia è impensabile. Bill Clinton da voi è un eroe di sinistra, in realtà è l’uomo che ha distrutto lo stato assistenziale in America. C’è solo un tratto dei leader democratici che gli italiani dovrebbero ereditare, la capacità di rivolgersi a tutta la comunità nazionale. Se Clinton fosse stato presidente nei giorni del disastro di New Orleans avrebbe fatto sentire cittadini insieme i bianchi e i neri”. Dietro gli occhiali di tartaruga luccicano gli occhi di Emmott, trasformato in dirigente del Pdi, Partito democratico italiano: ‟Ho scritto che Berlusconi non era all’altezza di governare. Considero il centrosinistra "fit", all’altezza, ma non sono convinto che i suoi leader abbiano fatto i conti con il mondo moderno. La vera tragedia è che Berlusconi è stato eletto per modernizzare il Paese e ha fallito. Ora toccherebbe alla sinistra ma temo ci deluderà. Manca una scelta coerente sul mercato”.
Chiedo a Emmott di dettare il manifesto del Partito democratico italiano e, complice un bicchiere di vino rosso, il liberista che assomiglia a Lenin, detta compunto: ‟1) Riformare il diritto del lavoro, troppo rigido e troppo flessibile. 2) Il miglior intervento per i lavoratori è una scuola che li formi e corsi di recupero che li adattino alle nuove mansioni. 3) Semplificare il sistema fiscale, i poveri pagano troppe tasse, ma si devono abbassare le aliquote: tagli fiscali di sinistra sarebbero un potente messaggio simbolico. 4) Le pensioni! Ma rischiamo di perdere le elezioni!”.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …