Gianni Riotta: La grande beffa di Milosevic

17 Novembre 2005
Il processo di Norimberga ai gerarchi nazisti cominciò il 20 novembre del 1945 e comminò il verdetto ai 22 imputati meno di un anno dopo, il primo ottobre ‘46. Gli israeliani misero alla sbarra il responsabile della ‟soluzione finale”, Adolf Eichmann, nell’aprile del 1961, lo condannarono a dicembre e lo impiccarono a maggio ‘62, unica sentenza capitale eseguita in Israele. Il processo al despota serbo Slobodan Milosevic, davanti alla Corte internazionale dell’Aja, s’è aperto nel febbraio 2002 e non si concluderà prima di marzo 2006. L’ex presidente jugoslavo si difende in proprio e rivendica ora più tempo per replicare ai capi di accusa sui massacri e le torture in Croazia, il tentato genocidio in Bosnia, i pogrom del Kosovo. Chiedeva che venissero sentiti 1.630 testimoni, si accontenterà di 239, ‟il minimo assoluto”. Sospeso per due mesi grazie a ‟motivi di salute dell’imputato”, ridotto a tre giorni alla settimana su istanza di Milosevic, il processo che doveva fare giustizia sulle più atroci violazioni dei diritti umani in Europa dal 1945 sta finendo in una farsa che rischia di protrarsi fino al 2008. Malgrado le contraddizioni e le polemiche che continuano da 60 anni, Norimberga superò l’handicap dei giudici sovietici, rappresentanti di un regime sanguinario, grazie alla buona fede americana e al rigore legale britannico assicurato dal presidente, barone Trevethin and Oaksey. L’ultimo dei suoi procuratori, il grande Telford Taylor, mi confessò di sentirsi ancora diviso tra l’ansia per un processo che rifondava il diritto internazionale e la consapevolezza di sancire una nuova morale, no al genocidio, affermazione universale dei diritti umani e responsabilità individuale nel dire no a ordini contro l’umanità. Garanzia un processo trasparente, breve e capace di assolvere tre imputati, condannarne quattro a varie pene di carcere, tre all’ergastolo, dodici a morte. Che la condanna non sia automatica è virtù cardinale dei processi contro i crimini di guerra e Israele, dopo avere giustiziato Eichmann, vide la Corte suprema assolvere per insufficienza di prove, e rimandare a casa negli Usa nel 1993, John Demjanjuk, incriminato come ‟Ivan il terribile”, killer nel lager di Treblinka. Lo stallo su Milosevic nasce da capi di imputazione troppo variegati, che divagano senza concentrarsi sui principali delitti. Una macchina processuale al tempo stesso percepita come accanita contro un vecchio solitario, eppure garantista fino all’impotenza. Con il risultato che nei Balcani il despota Milosevic si camuffa da ‟vittima” che svillaneggia i ‟persecutori democratici”, mentre i raid aerei Nato in difesa degli albanesi sono stravolti a ‟crimini di guerra” e i giudici ridotti a macchietta. Eppure, come rileva il giurista Antonio Cassese nel suo nuovo saggio ‟I diritti umani oggi”, dal Tribunale per l’ex Jugoslavia era venuto uno storico contributo con il caso Krstic, il generale accusato dell’eccidio di Srebrenica su ordini del gerarca Mladic: i settemila morti musulmani sono ‟prova di genocidio”, un reato che basta tentare per commettere. Comunque finisca il processo Milosevic, l’ultimo despota jugoslavo ha azzerato il giudizio del tribunale, prima di essere sommerso da quello della storia. Una lezione beffarda da non replicare per i casi africani di genocidio, dal Ruanda al Darfur. Con gli Usa a dir no alla Corte penale internazionale, l’Onu malmostosa e la Corte dell' Aja preda di una sindrome kafkiana, sono giorni bui per chi si ostina a credere al diritto internazionale e giorni da ghigno soddisfatto per i criminali di guerra, ovunque sul pianeta.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …