Gianni Riotta: Resistenza o guerra santa? Alcune domande sul futuro dell'Iraq

24 Novembre 2005
Domande sull’Iraq in autunno. È giusto o no che gli americani e i loro alleati si ritirino? Secondo il saggista Nir Rosen la chiave è in due vocaboli arabi, muqawama, resistenza, e jihad, guerra santa. Se il terrorismo impiegato contro gli Usa e la popolazione civile sciita è la muqawama dei sunniti e dei quadri ex Baath allora è possibile una fase politica di negoziato, seguita da un calendario di ritiro. Se è jihad terrorista ritirarsi significa travolgere il Paese in una guerra civile e spronare i Paesi vicini, Siria, Turchia, Iran, Giordania, Arabia Saudita, a intervenire sconvolgendo il Medio Oriente. Allora, muqawama o jihad? Il grosso della rivolta è sunnita nazionalista e dunque i partiti politici iracheni, riuniti al Cairo, parlano di dialogo con i ribelli e perfino di ‟diritto alla resistenza”. Il 15 dicembre si vota e chiunque vinca dovrà coinvolgere i sunniti, disarmare la guerriglia, concordare con Washington un ritiro nelle basi. Dunque gli americani non se ne andranno? Gli Usa hanno invaso l’Iraq per assicurarsi una base stabile nell’area, dopo aver perso l’Iran nel 1979 e aver visto vacillare l’Arabia Saudita nel 2001. Non solo si tiene una presenza nella pompa di benzina del mondo, ma si presidia l’Iran e si avvia una catena di basi in Asia Centrale, prossimo confine caldo con la Cina. I GI resteranno in quattro basi, una grande a Bagdad. Ha ragione l’ex presidente del Council on Foreign Relations Leslie Gelb a predicare la divisione dell’Iraq in tre zone, sciita, sunnita e curda? La divisione è già nei fatti. I curdi non rinunceranno alla loro autonomia, tengono gli occhi sul petrolio di Kirkuk e mobilitano la milizia peshmerga. Al sud gli sciiti non intendono perdere la libertà di culto, né farsi trasformare in un dominion dell’Iran. Il problema sono i sunniti: l’accordo del Cairo e il voto di dicembre li persuaderà a rinunciare alla violenza e al sogno di tornare alla dittatura di minoranza, o il veleno del nazionalismo è troppo forte? La spartizione è però impossibile a Bagdad, dove i quartieri confinano e ci sarebbero massacri e vendette. In America perfino deputati moderati come l’ex marine John Murtha parlano di ritirarsi: che succede? L’opinione pubblica non voleva la guerra a tutti i costi, s’è spostata solo dopo l’annuncio delle armi di sterminio di massa. Adesso è stanca, spaventata dalle stragi e dai morti e feriti americani, dal costo della campagna e i politici, entrando nell’anno della cruciale elezione parlamentare di midterm, frenano. Nessuno però immagina un ritiro alla Saigon 1975 o alla Beirut 1983. Non solo c’è il rischio caos a Bagdad, ma il prestigio americano andrebbe sotto terra e i rivali, dal gigante Cina al network terroristico Al Qaeda sarebbero rinvigoriti. Che possono fare gli alleati in Iraq, come l’Italia? Concordare il ritiro entro il 2007, partecipare ai programmi di addestramento per le forze irachene, condurre attività diplomatica con i Paesi vicini, contribuire alla ricostruzione economica. E’inevitabile che Bagdad precipiti nell’Apocalisse? Non ancora. I veri guai l’amministrazione Bush li ha creati dopo la guerra, non ascoltando i pareri dei diplomatici e dei generali pragmatici civettando invece con gli ideologi di moda. Le tre elezioni del 2005 possono rivelarsi un successo da non disperdere, il nord curdo e il sud sciita sono stabili. La débâcle strategica scaturisce dalla confusione della Casa Bianca: Bush, Cheney e Rumsfeld sembrano atterrati dal compito e il peso del caso Iraq cade sulle spalle di una sottosegretaria sconosciuta Meghan O’Sullivan, la sola che si occupa a tempo pieno della guerra. Meghan, da sola, non vincerà.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …