Gianni Riotta: Usa-Iran. Il ritorno al realismo

20 Marzo 2006
Il 16 marzo, vigilia di San Patrizio, apre un pozzo di novità nella crisi internazionale guadagnandosi forse un paragrafo nei futuri libri di storia. Ali Larijani, segretario generale del Consiglio supremo per la sicurezza e massimo diplomatico iraniano sulle questioni nucleari, s’è detto pronto ad aprire un negoziato con gli Stati Uniti sulla guerriglia in Iraq. La Casa Bianca conferma la svolta, precisando che si discuterà solo di Bagdad, non della corsa atomica degli ayatollah. Ma l’uomo incaricato di sedersi dall’altra parte del tavolo di Larijani è l’ambasciatore Usa in Iraq, il raffinato Zalmay Khalilzad, musulmano, nato in Afghanistan, eloquente in farsi, la lingua dei persiani. Il suo mandato è limitato a verificare come gli ayatollah possono aiutare gli sciiti in Iraq contro i terroristi, concludendo un accordo con curdi e sunniti. Ma quando le telecamere saranno spente e i cronisti lontani è ovvio che l’esperto Larijani e il navigato Khalilzad affronteranno il nodo micidiale: come evitare che il deferimento dell’Iran al Consiglio di sicurezza sul programma nucleare porti il mondo in un vicolo cieco? Da ieri Il Grande Satana Usa e l’Asse del Male iraniano tornano a parlarsi dopo la rottura delle relazioni diplomatiche nel 1980, seguita al sequestro dei 79 ostaggi Usa durato 444 giorni. Ieri, mentre veniva dato l’annuncio del dialogo Teheran-Washington, veniva diffusa la nuova ‟Strategia per la sicurezza nazionale” Usa e a nord est dell’Iraq 1500 soldati, 200 blindati e oltre 50 velivoli attaccavano a Samarra postazioni dei ribelli. Il legame tra i tre eventi è chiaro. Il testo strategico, redatto in gran parte dal consigliere per la sicurezza nazionale, il moderato Stephen Hadley, precisa che dall’Iran viene oggi la minaccia centrale contro gli Stati Uniti, continua a non escludere un’opzione militare ma, in un drammatico ritorno al pragmatismo dell’amministrazione di George Bush padre, dichiara che da ora in poi la diplomazia sarà lo ‟strumento preferito” di intervento. E’un mazzo di fiori offerto agli europei e che Hadley sia stato allievo del cuore, e poi socio del generale Brent Scowcroft grande campione dei pragmatici a Washington, prova l’importanza e la novità della giornata di ieri. Il presidente John Quincy Adams era persuaso, nel 1821, che ‟l’America si batte per la libertà, ma senza andare per il mondo in cerca di mostri da abbattere”. Il presidente Woodrow Wilson lo contraddisse, nel 1917, ‟noi siamo i campioni dei diritti umani e ci diremo soddisfatti solo quando i diritti saranno ovunque sicuri”. Tra la filosofia realista di Adams e quella idealista di Wilson il presidente George W. Bush aveva finora preferito la seconda: ma il nuovo documento per la strategia di sicurezza nazionale prova che la lunga usura dell’Iraq ha fatto riguadagnare posizioni ai tradizionalisti e che l’onda dei neoconservatori si smorza. Mentre il felpato Khalilzad si accinge a sedersi a negoziare con l’astuto Larijani, la nuova strategia Usa riconosce infine che gli americani sono bloccati in trincea a Bagdad, distratti così dai molti altri pericoli all’orizzonte. L’elenco dei paesi a rischio è aperto da Iran e Corea del Nord, con poi Siria, Cuba, Bielorussia, Birmania e Zimbabwe. Ma gli esperti sanno che le righe più importanti sono dedicate a Cina e Russia, non più considerate partner comunque amichevoli, la Mosca di Putin a capo del G8, la Pechino di Hu Jin Tao azionista multinazionale. Washington riconosce un rischio di deriva totalitaria in Russia e uno di espansione egemonica per la Cina in Asia. Davanti a questi esiti, gli Stati Uniti annunciano reazioni dure. Ma per far fronte ai veri rivali strategici del XXI secolo occorre non avere le mani legate dall’Iraq e da Osama bin Laden. Al Pentagono il capo di stato maggiore Peter Pace sa benissimo che un conto è minacciare Teheran con le cartine sulle riviste patinate dei conservatori, un conto attaccarla, con le divisioni, l’aviazione e la Guardia Nazionale logorate dalla guerra di posizione in Iraq e le reclute che rifiutano di presentarsi agli uffici leva come un tempo. Il nuovo equilibrio si condensa nella massima ‟idealisti negli obiettivi, realisti nei mezzi”: il sogno di diffondere la democrazia non si spegne, ma la vittoria di Hamas e il successo dei Fratelli Musulmani insegnano che si tratta di una lunga marcia non dei cento metri. Il nuovo obiettivo è ‟una democrazia capace di trasformare” in Paesi in cui è innestata. Verrà perseguito con alleati, ascoltando l’Onu, soprattutto quando il detestato segretario generale Kofi Annan andrà in pensione. Non è nella personalità del presidente Bush la capacità di riconoscere gli errori, ammettere cioè che l’attrito in Iraq e gli abusi a Abu Ghraib e Guantanamo hanno tolto smalto alla sua campagna per un’aggressiva difesa degli interessi Usa e dei diritti umani. Certo però, tra gli eventi di ieri si registra anche l’apertura di un’inchiesta per far luce sulla misteriosa morte di 15 civili iracheni a Bagdad. La crisi iraniana e la crisi irachena si rimettono in moto di colpo. I critici del presidente Bush diranno che ha dovuto trattare con gli odiati ayatollah perché insabbiato a Bagdad (e al Congresso si parla apertamente di ‟censura” nei suoi confronti mentre la stampa di sinistra chiede la messa sotto accusa, l’impeachment). I suoi sostenitori che senza le divisioni americane schierate al confine, Teheran sarebbe assai meno disposta a dialogare. Hanno entrambi ragione, ma finalmente ieri s’è aperto un barlume di speranza da alimentare.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …