Gianni Riotta: Addio alle Armi

29 Maggio 2006
La cultura democratica dell’intervento umanitario è, nella sinistra italiana, patrimonio di minoranze intellettuali. Il boemo Havel, il polacco Michnick, il Nobel per la pace Ramos Horta, le riflessioni anglosassoni di Berman, Walzer, Buruma, Ignatieff, non hanno seguaci numerosi. In particolare dopo la guerra in Iraq, la diffidenza sulla diffusione della democrazia e dei diritti è rimasta formidabile. Così il centrosinistra sembra alla vigilia di un ritiro da Bagdad, se non proprio da ‟tutti a casa” come la manovra ordinata dal premier spagnolo Zapatero che fece piangere i suoi rudi marines, certo repentino. Nell’estate 2005, davanti alla platea pacifista delle Acli, Romano Prodi parlò di ‟calendario di ritiro”, formula bene accetta agli alleati di Washington e Londra. Ancora nel presentare il governo alle Camere, il premier aveva avuto buon gioco a rintuzzare le battute della destra, ripetendo che anche Silvio Berlusconi aveva programmato il rientro del nostro contingente, entro l’anno. Ora l’accelerazione. Prima s’è provato a trasformare in solo sforzo civile la spedizione, che l’ex presidente Ciampi aveva più volte correttamente battezzato sotto l’egida Onu e in nessun modo assimilabile, né de jure né de facto, né in politica né in morale, alla guerra del presidente George W. Bush a Saddam Hussein. Quando però i generali, considerate le pesanti condizioni in cui versa anche lo scacchiere sciita per il perdurare della guerriglia fondamentalista, terrorista e baathista, hanno ricordato che perfino poche decine di funzionari civili avrebbero richiesto la protezione di un migliaio di militari, ha prevalso l’ipotesi del ritiro, in tempi ancor più rapidi. Certo ha pesato la sinistra antiamericana che dell’opposizione a Bush ha fatto bandiera, ma anche i cattolici sono ostili alla coalizione alleata in Iraq, diluendo i fermenti di ‟interventismo umanitario”, percepiti da Rutelli, Rosa nel pugno, intellettuali Ds, fogli come Europa e Riformista. Toccherà quindi a Massimo D’Alema, ministro degli Esteri e vicepremier ma, come premier, leader di guerra umanitaria contro l’uomo forte dei Balcani Milosevic, ai tempi dei pogrom antialbanesi, spiegare alla collega americana Condoleezza Rice che gli italiani lasciano l’Iraq. D’Alema proverà a non dare all’addio alle armi un tono ostile, magari - dicono alla Farnesina e a Palazzo Chigi - raddoppiando sforzi e aiuti per il governo eletto a Bagdad e rassicurando che il nostro corpo di pace in Afghanistan, dispiegato in direzione sud a Herat, non ammainerà bandiera, malgrado le polemiche stampa. Ritirarsi da Nassiriya, dove i nostri soldati hanno servito con distinzione, in condizioni aspre, politiche e di teatro, lasciando un grave pegno di sangue, sembra dunque scontato. La stragrande maggioranza degli italiani è sempre stata contraria, a destra come a sinistra, e tra gli elettori dell’Unione i favorevoli sono minoranza estrema, sia pur d’élite. Tutto secondo copione quindi, ma con un filo di urgenza in più rispetto al programma elettorale: la disastrosa gestione, politica, diplomatica, umanitaria e militare, con cui la Casa Bianca conduce le operazioni non facilita gli alleati, specie i progressisti Blair e Prodi. Eppure, dopo la nostra partecipazione alle operazioni di pace, forse la formula del ‟ritiro graduale” resta efficiente nella fase difficile a Bagdad, magari avvicendando civili e militari e chiarendo con coraggio alla riottosa opinione pubblica che i soldati italiani, fedeli alla Costituzione, non sono in Iraq in guerra, con nessuno. Ma che le operazioni di pace più importanti, e la prossima stagione lo confermerà, richiedono al debutto un periodo duro di controllo in armi. Si potrebbe forzare Washington a parlare con più chiarezza, grazie al nostro ruolo di protagonisti capaci di mantenere gli impegni, unico Paese dell’Europa continentale. Una posizione ardua, ma che conferisce status diplomatico e etico, da investire negli Usa e in Europa, dove la cancelliera tedesca Angela Merkel cerca con ansia in Prodi un alleato per riannodare il dialogo con Washington, spezzato da Chirac e Zapatero. Poteva essere una semina propizia per mettere a dimora, con più energia, idee di libertà, giustizia, diritti, dialogo, comunità e sradicare le velleità animose della protesta isolazionista. I vecchi maestri della sinistra, da Hegel a Gramsci, insegnano a usare le contraddizioni che la dialettica della storia offre sempre, e il ministro D’Alema lo sa bene. La sinistra 2006 sembra scegliere invece la linea del minor attrito con la base, soluzione comprensibile ma a rischio futuro di sterilità, intellettuale e morale.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …