Gianni Riotta: A colpi di pallone (per capire il mondo non per cambiarlo)

09 Giugno 2006
‟Il calcio non è colpire una palla, è lottare”, George Orwell, scrittore. ‟C’è chi pensa che il calcio sia una questione di vita o di morte. Che vergogna! È più importante della vita e della morte”, Bill Shankly, allenatore del Liverpool. I due saggi offrono le loro massime nel giorno sacro alla liturgia del football, il debutto della Coppa del Mondo. Il segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan scrive sulla mitica Gazzetta dello Sport di invidiare il pallone, che unisce il mondo più del suo Palazzo di Vetro. San Bono, il musicista degli U2 paladino della carità, intona: ‟Il calcio ferma la guerra”. Da ogni video, da ogni quotidiano, in ogni bar e casa appelli Coca Cola per lo spettacolo che magnetizza l’Homo Sapiens: Gooool!
Ma davvero gli animi si pacificano estasiati quando il portiere ha paura del calcio di rigore, come voleva Handke, o una squadra ‟non riesce a segnare neppure in una porta grande come l’arcobaleno” come ammoniva Soriano? C’è chi obietta, persuaso che il calcio divida, esasperi, laceri. Lo scrittore Ryszard Kapuscinski è diventato celebre con i reportage dalla ‟guerra del football”, Honduras contro El Salvador, 1969, dopo un match di eliminazione Mondiale, bombardamenti e 2000 morti. Chi ricorda ancora la ‟partita che non ci fu”, Dinamo Zagabria-Stella Rossa Belgrado 1990, croati contro serbi, i teppisti della Tigre Arkan a insultare, la folla che invade il campo, l’asso Boban che prende a calci un poliziotto, prodromo della guerra nei Balcani? Il calcio è politica, Inghilterra contro Argentina ai tempi della guerra per le Falkland, Iran e Stati Uniti in questo Mondiale, rigori nucleari in un possibile match.
Quando l’Italia battè la Germania 4-3 nel 1970 e una folla notturna con il tricolore invase le piazze ‟L’Espresso” titolò ‟Noi lupi”, deducendo dalla grande festa cupi presagi di alienazione. Allora il tricolore sventolava solo nei violenti cortei neofascisti, ma la kermesse per gli azzurri, bandiere nazionali in spalla, fu sagra di paese allegra, anticipando la notte beata del 1982 con l’Italia dei gentiluomini, Bearzot&Pertini. Felicità e nessun vetro rotto.
Il calcio non è né il toccasana del mondo, né la sua malattia infettiva. È lo specchio del pianeta, ampio e preciso, gioia ma anche squallore. Il prestigioso ‟Financial Times” non sa occuparsi della Germania se non per ricordare come la nazionale di Berlino sia, fin dal titolo dopato 1954 ritratto nel capolavoro di Fassbinder ‟Il matrimonio di Maria Braun”, alla ricerca di riscatto dopo il nazismo. La Federazione inglese prega invano i tifosi di non urlare al Mondiale, contro i tedeschi, lo slogan crudele ‟vi abbiamo battuto in due guerre mondiali e una finale mondiale”, quella del 1966 vinta dall’Inghilterra con un gol fantasma. I giocatori degli Stati Uniti temono il bis del coro feroce intonato dalla curva del Messico contro gli yankees ‟Osama! Osama!”. Il Wall Street Journal , tempio della correttezza anglosassone, ritrae Totti con spaghetti per capelli e polpette sulla fronte, vignetta satanica dello sport.
Il foglio dei neoconservatori Usa, ‟Weekly Standard” , ha proposto la squalifica della nazionale di Teheran per l’antisemitismo del presidente Ahmadinejad, il rivale progressista The Nation , si è opposto, la cancelliera Angela Merkel, pragmatica, ha detto ok alla squadra degli ayatollah. Ahmadinejad andrà in Germania solo se la squadra passa il turno, e c’è chi anticipa ‟manine” alla Moggi per dribblare l’eventualità. In Iran lo sport è aborrito dagli ayatollah e usato invece con astuzia dal presidente populista, che apre gli stadi alle donne. Guardate lo spassoso film ‟Offside” del regista Jafar Panahi, storia di donne che per andare a vedere la nazionale contro il Bahrein si fingono poveri ciechi, poliziotti, studenti, finendo tutte in guardina a implorare la polizia islamica: ‟Almeno dateci una radiolina: quanto stiamo?”.
Bono pensa alla Costa d’Avorio, la squadra di Didier Drogba, quando parla di calcio che ferma la guerra. I capi fazione della nazione africana hanno chiesto una tregua durante le partite degli ‟Elefanti”, che gli allibratori danno come possibile sorpresa insieme all’Ucraina. Propaganda, nel 2000 il generale Guei arrestò i calciatori per due settimane, deluso da un risultato, come i figli di Saddam Hussein costringevano i nazionali iracheni a calciare palloni di cemento per un rigore sbagliato. Il governo del presidente Laurent Gbagbo strumentalizza il razzismo contro musulmani e immigranti, ma la squadra è composta da immigranti e musulmani e allora sordina Mondiale.
Il calcio è globalizzazione in campo, la ragazza emigrante Sikh che gioca in segreto a Londra nel film ‟Sognando Beckham”, i palloni cuciti dai bambini pakistani e contestati dai no global, la Nike che offre 15 mila sfere in regalo ai marines da distribuire agli scolari in Iraq. Il mercato mondiale sono gli allenatori brasiliani che contenderanno il titolo al connazionale Parreira, Zico per il Giappone, Scolari Portogallo, Paqueta Arabia Saudita. E i cinque carioca al Mondiale senza le maglie oro della Seleção, Deco in forza al Portogallo, Francileudo Santos per la Tunisia, Sinha del Messico, Alex del Giappone e Marcos Senna della Spagna. Chi guarda il Mondiale guarda il mondo, brutto e bello com’è, sostiene Franklin Foer, autore del saggio ‟How soccer explains the world” (il calcio spiega il mondo) che ha lanciato un blog sulla raffinata rivista ‟The New Republic” , www.tnr.com solo per vedere trasformata la dialettica elegante in tifo da bar. Forse i guai geopolitici di Washington si spiegano proprio con la distrazione perenne degli Usa davanti al ‟soccer”, malgrado la bravura dell’allenatore Arena e dei suoi aitanti nazionali.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …