Giuseppe Montesano: La letteratura per Borges? Un oppio di parole

13 Giugno 2006
Come mi sono imbattuto in Borges a diciotto anni, più o meno intorno al ’77, tra indiani metropolitani, lotte continue, okkupazioni, radio libere, lavorare tutti lavorare meno, è mia e la gestisco io, casi Moro e delitti di Stato? Lo ignoro. So solo che insieme a due amici ci sprofondavamo nelle esili e inesauribili pagine di Finzioni come nei geroglifici di un palinsesto semicancellato, e che trattavamo Borges come l’autore di una mappa cifrata: una mappa che letta tra le righe si sarebbe aperta sul sogno di una via di fuga dal presente.
Dove si annidava la chiave che portava dietro le apparenze atroci del mondo? Nel divampante incendio metafisico che chiude Le Rovine circolari forse c’era un’uscita al male ottuso: ‟Camminò contro le lingue di fuoco. Esse non morsero la sua carne, esse lo accarezzarono e lo inondarono senza calore e senza combustione. Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che anche lui era un’apparenza, che un altro lo stava sognando...”; il grimaldello per l’uscita dal dogmatismo del presente era in una chiosa ai mondi immaginari di Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, un mondo in cui ‟un libro che non racchiuda in sé il suo antilibro è considerato incompleto”; o forse non c’erano uscite, restava solo l’infinita ferocia della Lotteria di Babilonia, il disegno oscuro tessuto dalla imprendibile ‟Compagnia” che eleva a divinità la legge del più forte chiamandola Caso, e c’era da rassegnarsi all’azzardo universale, la legge comune del Male: ‟Come tutti gli uomini di Babilonia sono stato proconsole; come tutti, schiavo; ho conosciuto anche l’onnipotenza, l’obbrobrio, le prigioni. Guardate: alla mia mano destra manca l’indice. Guardate…”.
Quella ricerca di un dietro lo specchio era inutile: Borges sfuggiva alle rivelazioni, si fasciava in quella prosa illogicamente logica, si sottraeva alle spiegazioni in una divagazione perpetua. Che cosa voleva veramente dire Borges? E a un certo punto diventò evidente: dietro le parole di Borges non c’è niente da cercare, e soprattutto non ciò che si chiama verità. La rivelazione sta esattamente lì, alla superficie: sta nel piccolo brivido di eccitazione che coglie il lettore per un accostamento inusuale di parole, nel procedere fastosamente geometrico di una prosa senza vero centro, nella lieve e euforica catastrofe dello slittamento di significato a cui sono spinti i pensieri di Schopenhauer o degli Gnostici o di Spinoza. In vecchiaia, Borges ha svelato senza reticenze ciò che era evidente: la sua opera, dagli sbalorditivi e inarrivabili racconti scritti tra il 1939 e il 1942 e che saranno il cuore di Finzioni, attraverso varie raccolte minori, e fino alle tarde e malinconiche variazioni sul tema del Libro di sabbia, la sua è letteratura derivata. Volgere le spalle al realismo bieco e polentoso e riecheggiare, in una forma sintetica e combinatoria, il ritmo incantatorio che ha presieduto alla poesia dalle origini a Joyce: è questa l’operazione di Borges. La verità? La verità del presente non esiste, per lui, ed è semmai già contenuta in un aforisma di Marco Aurelio o in una laminetta orfica o in una riga del Mondo come volontà e rappresentazione: la letteratura deve fare il contrario che cercare la verità, deve rassegnarsi a secernere il suo oppio di parole, la sua musica consolatoria e inquietante.
È quello che avviene sempre nel miglior Borges, ma avviene in modo simile a ciò che avviene in Stravinskij quando rifà Mozart: Borges sente che non si può essere più Cervantes o Poe, ma solo parodiarli. Solo che la parodia borgesiana frantuma e distorce a tal punto le origini di ciò che parodizza da inventare, nei suoi momenti più alti, degli oggetti letterari completamente nuovi: come accade in Pierre Menare, autore del Don Chisciotte. In Borges la letteratura che doveva essere contemporanea è definitivamente diventata un museo, e le opere dei musei sono utilizzabili a piacere perché a esse è stata tolta l’aura e il sangue del tempo, e ciò che conta in Virgilio come in Kafka è lo choc che essi infliggono al lettore quando sono letti come contemporanei, come se scrivessero ora e qui. È una falsificazione? Non importa, perché per Borges la sola cosa che importa nella letteratura è il suo dispensare il beneficio supremo, l’oblio che cancella o attutisce l’orrore della vita. È una menzogna? Non importa, perché per Borges se noi non sappiamo se siamo svegli o dormienti, incerti se la nostra vita è un sogno e una rappresentazione, le parole ‟verità” e ‟menzogna” non hanno più alcun senso.
Su questo nocciolo che Borges portò in alcune pagine a una lucida visionarietà, si edifica in buona parte la letteratura del ‟Post”, quella che è la nostra. È la letteratura derivata, di secondo grado o ‟al cubo”, la letteratura combinatoria in cui il linguaggio tende a ingoiare il contenuto, o che proprio quando più crede di mettere in scena la cosiddetta ‟realtà”, finisce con lo spettacolarizzarla e paradossalmente con il renderla dejà vu. In questo senso molta letteratura dopo Borges è una parodia ingenua dei meccanismi che Borges adoperò, fino al punto da annullare nello stesso Borges l’effetto sorpresa e a far sembrare Borges un imitatore di se stesso, come lui stesso lucidamente vide nel Libro di sabbia: ‟Perché sembri così irritato da quello che ti dico?”. ‟Perché ci somigliamo troppo. Detesto la tua faccia, che è la mia caricatura, detesto la tua voce, che fa il verso alla mia, detesto la tua sintassi patetica, che è la mia”. Alla fine Borges si era accorto che la sua originalità era già contenuta negli scrittori amati che lui aveva mangiato e reinventato, ma se ne accorse senza troppo dispiacere: essere un Anonimo che è insieme un Tutti non era in fondo una delle forme migliori dell’amato oblio?
Ora, in vecchiaia, il Maestro di calle Maipù cominciava anche a dolersi del suo silenzio sulla realtà: il silenzio assordante di Borges sull’Argentina e sulle sue dittature, sulle prigionie ingiuste e sui morti di regime. In una delle ultimissime interviste dichiarò che non aveva mai letto giornali in vita sua, e che nessuno gli aveva detto niente. Eppure, contro la sua stessa pratica della letteratura come gioco assoluto e assolutorio, i racconti migliori di Borges avevano registrato anche quel silenzio e lo avevano giudicato. Perché altrimenti l’ossessione borgesiana per il tradimento? E perché l’insistenza sulla viltà? L’azione appare nella ‟filosofia” di Borges come un miraggio, qualcosa che tocca agli eroi, qualcosa che lo scrittore non può conoscere perché a lui tocca solo l’estasi vergognosa della contemplazione: e chi contempla non può agire. Non erano forse le stimmate di quel silenzio ossessivo e pieno di vergogna che l’artefice argentino portava sulla pelle dei suoi racconti? Aveva scritto in una poesia: ‟Strano destino, quello di Borges…”, e non si era sbagliato: se mai l’Omero allucinatorio di calle Maipù aveva sfiorato la verità e aveva parlato degli ‟spariti”, dei morti, dei soppressi, non era certo stato nel tardivo rimorso degli ottant’anni, ma nella trama di orrori reali che aveva registrato come un sonnambulo nella metafora gigantesca della Lotteria di Babilonia, là dove il caos è salito al potere e si è occultato nella parvenza dell’ordine.
Borges voleva che la letteratura si sostituisse al mondo perché nel mondo c’era qualcosa di ripugnante, e quando la letteratura lo ripagò in pieno con la sua moneta dal conio equivoco, scrisse che forse ciò che lo esprimeva di più non stava nei suoi scritti ma in quelli dei suoi predecessori: al contrario degli scrittori ingenui del ‟Post”, inebriati dal gioco combinatorio e dall’up to date, Borges aveva capito che sia pure a un livello vertiginoso, che aveva toccato il culmine nelle pagine rigorosamente ebbre di Finzioni, la sua era una letteratura secondaria, che avrebbe generato altra letteratura ancora più secondaria: e non era stato, e non è così, per i suoi maestri. Il nevrotico e malaticcio Poe, per quanto saccheggiato e diluito dagli imitatori pulp e noir, resta enigmatico e sorgivo alle soglie della nostra infinita Modernità; persino il frivolo Wilde, scimmiottato da esteti d’accatto, coccolato dai degustatori di massime da salotto, e lui stesso pieno di orpelli, è ancora al crocevia dove l’inutilità dell’estetico resta l’estrema protesta contro l’utile dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; e Kafka, l’impiegato a vita banalizzato dai teologizzatori a un tanto al chilo, conserva intatta nella pietrificazione delle sue frasi la tenebrosa e insopportabile verità che leva il respiro nel Processo e nel Castello: il meccanismo mattatorio che del potere fa una religione.
È per questo che a colui che è stato l’indispensabile artefice annidato in calle Maipù, alla cieca ombra malinconica che ha istoriato e acceso le pagine memorabili di Finzioni, si può dire oggi senza rimorsi: addio, Borges, forse ci rivedremo, chissà, ma sarà in un altro sogno.

Giuseppe Montesano

Giuseppe Montesano è nato a Napoli. Ha pubblicato due romanzi: A capofitto e Nel corpo di Napoli (Premio Napoli, Superpremio Vittorini, Premio La Torre, Premio Scommesse sul Futuro, finalista Premio …