Gianni Riotta: San Siro e Sant’Ambrogio, parabola di un buono con la maglia numero 3

07 Settembre 2006
Grande eco per la scomparsa di Giacinto Facchetti, presidente del football club Internazionale di Milano. Il Tg5 ha aperto l’edizione serale con la notizia, l’‟Herald Tribune” ricorda il campione in una commossa nota di Rob Hughes, l’Uefa lo rimpiange, i principali quotidiani impegnano la prima pagina: il ‟Corriere della Sera” come titolo di taglio, spazio di solito riservato a guerre, manovre economiche, stragi, grandiosi eventi della geopolitica, speranze e affanni di quel mondo ‟grande e terribile” che colma questa colonna, chiamata non a caso Titanic. Il palmarès di Facchetti è straordinario, quattro scudetti, una Coppa Italia, due coppe europee di club e una con la Nazionale, due titoli mondiali di club e la finale mondiale che assegnò per sempre la Coppa Rimet nel 1970, contro il Brasile di Pelé, da molti considerato la più forte squadra di tutti i tempi. Capitano della Nazionale per 70 volte in 94 presenze, 634 partite con l’Inter e 75 gol, che sarebbero tanti per un’ala ma per un terzino, allora come oggi, sono tantissimi. Con Helenio Herrera, cancella la solitudine del calcio che Arrigo Sacchi depreca come ‟Cento anni di catenaccio”. La Nazionale in Francia e l’Inter a Firenze giocheranno con il lutto al braccio. Ma questo fantastico curriculum sportivo, ieri riprodotto con affetto da tante grandi firme, basta a giustificare il prime time televisivo e le pagine dei quotidiani, intere e fuori dalle cronache sportive? No: l’enfasi che ha accompagnato la morte del presidente Facchetti e il cordoglio che oggi lo seguirà nell’estremo saluto, da San Siro a Sant’Ambrogio, sono legati all’ultima avventura del terzino nerazzurro. Facchetti ha voluto rappresentare, nella sua squadra e ai vertici del calcio europeo, il valore del football come sport. Consapevole che il pallone è oggi uno show miliardario e globale, ma persuaso che non appena la lealtà lascia il posto alla camarilla, il business si sgonfia, si impoverisce, perde lustro e profitti. Nella più celebre delle intercettazioni che hanno portato alla fine del calcio scandalo e allo scudetto assegnato all’Inter per meriti sportivi, il quinto di Facchetti, il presidente viene definito da un manager poi condannato ‟sbrindellone”: vocabolo che i dizionari indicano come sinonimo di ‟sbrendolone”, ‟chi ha il vestito pieno di sbrendoli, brandelli e per estensione chi è sciatto e trascurato nel vestire”. Ora Facchetti, in campo e fuori, non aveva mai né un capello fuori posto (fu scelto per la reclame di una, allora famosa, brillantina!), né maglia o camicia meno che impeccabili. Il sarcasmo ‟sbrindellone” vale dunque come calunnia e irrisione per la condotta del presidente, estraneo a giochi e intese sotto banco, risoluto a non assoldare la corte dei miracoli di clienti e vassalli, attento alla sostanza, non all’apparenza. Facchetti curava l’etica, tema che suo figlio Gianfelice affronta in una pieces teatrale sul calcio in un lager nazista ‟Bundesliga ‘44”, mentre gli avversari erano concentrati sull’affarismo, che faceva loro apparire povero, disfatto, imbelle chi mira a vincere in campo, incapace, prima ancora che alieno, dal malaffare. Regole, fair play e vittoria attraverso classe e tenacia, sono, in questa concezione, la divisa lacera degli straccioni, disprezzata dai furbi a ogni costo. Abbiamo visto a che baratri porti questa condotta irresponsabile. Senza quegli attacchi e senza la sua candida fede nei valori semplici di giustizia e lealtà, Facchetti sarebbe stato ricordato come asso dello sport. L’aver tenuto duro nel sottobosco degli intrighi ne fa invece un esempio per tutti, e merita l’elogio del presidente Napolitano. La parabola del Cipelletti, così il Mago Herrera chiamava il suo numero 3, è nitida: alla lunga nella vita, come in ogni favola, i buoni vincono.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …