Gianni Riotta: Quando Oriana mise al tappeto Henry Kissinger

19 Settembre 2006
‟Vuoi venire a sentire la Fallaci? Parla alla Columbia University. Costa sette dollari, ma ho un biglietto se vuoi”. L’offerta della mia compagna alla scuola di giornalismo mi colpì perché la conferenza della scrittrice italiana era subito andata esaurita. E allora sette dollari compravano pranzo per una settimana su Broadway per studenti e intellettuali bohemien. Qualche anno dopo, quando era direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Manhattan, Furio Colombo decise di invitare le stelle a parlare in diretta, lunga attesa per Umberto Eco, pigia pigia per Susan Sontag, ma quando, in quella che fu forse l’ultima sua apparizione pubblica in città, toccò ad Oriana Fallaci la fila si allungò lungo gli isolati di Park Avenue. Perché gli americani adoravano Oriana, agli americani raccontò del cancro, che riteneva aver contratto per l’esposizione ai fumi del greggio, nella prima guerra del Golfo, agli americani aveva affidato, rognando, brontolando, protestando, urlando, sbattendo il telefono, la propria vita. L’amavano perché, con la sua aria dolce da tigre bionda con la sigaretta in bocca, aveva divorato il segretario di stato Henry Kissinger, il più astuto, machiavellico, bismarckiano, diplomatico del XX secolo. Che cosa aveva negli occhi quell’italiana, che fluido trasmetteva, per avere persuaso il segretario di stato di Richard Nixon a dichiararle che sì, lui si sentiva come un cow boy che va in avanscoperta con la carovana, il cavaliere che va da solo in città? Quell’intervista è da allora di testo nelle scuole di giornalismo. Kissinger provò a smentirla, Oriana tirò fuori un nastro, Mike Wallace, il suo amico e stella della rete tv Cbs, volle farlo ascoltare in diretta, il tono gutturale tedesco di Kissinger venne fuori distorto, polemiche, urla, smentite ma la vinse Oriana. Con Mao Kissinger se l’era cavata, con Zhou En Lai non aveva avuto problemi, con Breznev, il vietnamita Le Duc Tho e alla Casa Bianca col cinico Nixon aveva regnato. Oriana l’aveva smontato e ce l’ha fatto vedere come forse è, come nessuno saprà mai più. ‟Fu l’incontro più disastroso con un giornalista della mia vita” scrisse Kissinger nelle sue memorie e, viaggiando con l’avvocato Agnelli verso un vertice, molti anni dopo, smussava l’ironia dell’ospite masticando fosco tramezzini al salmone. Oriana Fallaci affolla le biblioteche dei colleges con i suoi volumi perché generazioni di cronisti yankee vogliono sapere come ha fatto a trovare l’ayatollah Khomeini, l’uomo più bello incontrato nella sua vita, a prendere le pallottole sulla Piazza delle Tre Culture a Città del Messico nel 1968, a viaggiare in Vietnam, nel mondo, senza mai perdere la cicca all’angolo della bocca e il fascino da maledetta fiorentina. Adorano e ammirano Oriana perché lei era tutto quello che vorrebbero essere e stentano a diventare, elegante e cinica, efficiente e romantica, colta e popolare, star e cronista. La sua casa sulla Upper East Side (avessi scritto l’indirizzo lei viva domani sarei stato scorticato) ha la scala accanto a quella di un altro colosso del giornalismo italiano, il suo amico Ugo Stille, e quando noi ragazzini reporter passavamo su quel marciapiede incantato sognavamo. Ma la sua casa Oriana l’apriva anche con generosità, casa zeppa di libri, casa zeppa di mozziconi e versava vino bianco e chiacchierava e urlava e sbatteva i pugni sul tavolo e chiedeva al collega inerme perché mai non si ribellasse contro il direttore e non lo mandasse aff... e perché quel trombone di XY ancora ammorbava i giornali e quel cretino ignorante di YZ ancora appestava con i suoi fondi. Oriana aveva la stanza più bella al sesto piano dell’Ufficio Rizzoli della Cinquantasettesima strada, la via più intellettuale di New York. Grandi vetri, grande tavolo, un segretario o una segretaria che duravano poche settimane, perché Oriana li consumava a urla, ordini, preghiere, seducendoli, affascinandoli, istruendoli. Poi tutti raccontavano l’esperienza come un sogno e quando li incontrava per strada la Fallaci li salutava come una regina che si degna di ricordare uno scudiero del passato. Uno di loro sta scrivendo un libro, in tutta fretta. Dirà che Oriana era, anche, generosa? Che prima di travolgere il malcapitato con la sua furia, chiedendogli di essere come lei, di vivere in proporzioni epiche - elogiando il romanzo Inshallah per la Repubblica, il suo amico Bernardo Valli disse che Oriana era persona di dimensioni omeriche - era capace di dare suggerimenti, chiedere libri, ascoltare curiosa. Sapeva che in Italia la critica l’aveva decretata ‟low brow”, popolare, detestava la sua scrittura. E non è vero che non le importava, anzi: si inquietava e chiedeva conferma e si interrogava perché, lei che era la più grande, non ricevesse elogi nell’accademia. Non lo chiedeva agli amici famosi, Stille, Colombo, il concittadino Vanni Sartori, adorato e poi detestato, e poi detestato e poi adorato, ma sempre considerato uno degli ‟happy few” alla sua altezza. No: Oriana chiedeva, come i veri talenti, conferma di sé, ai semplici, ai debuttanti. Alla Rizzoli non era una firma, era un mito. I manager dovevano chiamarla e fare anticamera, i direttori pregare per una telefonata. Quando arrivai inviato da Stille nel vecchio ufficio davanti alla stazione, non c’era neppure un bugigattolo, vecchie storie di nonnismo. Vidi però una stanza piena di scatoloni, con una stupenda finestra davanti al ponte sull’East River. E accanto un bugigattolo vuoto. Chiesi di spostare le casse nel ripostiglio ma mi intimarono di non farlo ‟Questo è il deposito di Fallaci”. La sera, quando tutti andarono via spostai le scatolone e lasciai una lettera a Oriana, certo che avrebbe compreso che la finestra serviva più ad una persona che al cartone. ‟Sei morto” dissero tutti, ma Oriana non aveva nulla di piccino, nulla. E durante la prima guerra del Golfo, vide che studiavamo sulle grandi carte dell’esercito, Kuwait e Iraq. Prese a passare ogni pomeriggio per calcolare con noi armi, strategie, passaggi. Poi se ne andò al fronte invisibile e fece l’unico scoop del conflitto, un volo su un ricognitore. Ma all’ufficiale che le aveva promesso la prima linea e la tradì riservò un trattamento Oriana: tempestando di pugni e colpi di tacco la porta d’hotel del fedifrago. Oriana si considerava una donna di sinistra, sinistra fallaciana, democratica, tendenza fallaciana. E quando il ‟New Yorker”, la rivista radicale, la intervista sui suoi attacchi radicali all’Islam, ripete le tesi sull’emigrazione cavallo di Troia di Osama, ma poi mostra con orgoglio un ritaglio della ‟Stampa”, con il reportage che scopre come a Teheran le femministe dissidenti leggano la Oriana, la sola capace di non avere paura reverenziale di Khomeini. La inorgogliva la popolarità clandestina in Iran, lei che adesso era persuasa di cadere sotto il fuoco islamico. Non aveva paura di nulla Oriana, si alzava il pullover di cachemire per mostrare la cicatrice fresca dell’operazione al torace, quando i denti la tradirono chiedeva ai suoi cuochi prediletti, da Sandro’s, da Teodora, di frullarle i piatti, per l’orrore degli chef. Ma quando un corvo nero le morì stecchito nel giardino di casa, lo prese come un presagio nefasto, urlò, imprecò, si battè, finché un collega non si arrampicò maldestro per liberarla dell’incomodo. Per ricompensarlo gli diede in dono una copia di Inshallah con dedica, ma ricevendo a sua volta in regalo un libro, lesse avida la dedica e urlò epica ‟Fanne un’altra, più calore!”. ‟Oriana Fallaci, scrittrice e provocatrice” titola oggi il ‟New York Times” che tanto la faceva inquietare. Osassi dire riposa in pace Oriana mi fulminerebbe, come quando provai a dirle di non credere alla rabbia contro gli emigranti. Meglio dire agitati, provoca Oriana, per l’eternità che temevi e sognavi a Manhattan nelle notti da sola sulla Upper East Side.

Gianni Riotta

Gianni Riotta, nato a Palermo nel 1954, ha studiato all’Università di Palermo e alla Columbia University di New York. Ha lavorato come giornalista per varie testate da Roma e da …