Carla Forcolin: Vika e i legami affettivi dei bambini in affidamento

03 Novembre 2006
Nei giorni scorsi si è saputo che la bambina bielorussa di nome Vika, di cui ha parlato tutta l'Italia, sotto lo pseudonimo di Maria, ha trovato in patria una famiglia, che l'ha accolta in affidamento. La famiglia affidataria ha già adottato il fratello della bimba. Sembra che la vicenda che ha tenuto con il fiato sospeso tante persone si sia chiusa nel migliore dei modi. Secondo i giusti dettami delle convenzioni internazionali, si è privilegiato l'inserimento in una famiglia bielorussa della bambina, che aveva vissuto in un istituto, e per di più la si è ricongiunta al fratello.
Soluzione migliore, in teoria, non la si poteva trovare.
Eppure rimangono delle perplessità: perché si è giunti alla soluzione ‟ideale” solo ora, dopo che la bambina era diventata un caso internazionale? È chiaro che solo il ‟conflitto internazionale” e il desiderio di non bloccare il flusso dei bambini in soggiorno di cura in Italia, flusso che interessa ormai molte persone e che coinvolge anche interessi economici, ha spinto lo stato bielorusso a trovare questa soluzione, per porre fine ad ogni polemica, pure nel nostro paese. È quindi evidente che l'azione illegale ma innegabilmente coraggiosa della famiglia che aveva ospitato la bimba ha sortito l'effetto di farla adottare in patria.
La famiglia ligure, che amava la bambina al punto di commettere per lei un reato, la famiglia che era desiderosa di adottarla, potrà forse trovare una consolazione sapendo che almeno la piccola non è più istituzionalizzata, che probabilmente non le saranno più fatte violenze, che è accanto al fratello.
Ma perché la famiglia che aveva preso suo fratello non aveva raccolto anche lei a suo tempo? La prassi di non dividere i fratelli, anche se poco seguita, è considerata universalmente buona. Forse ora alla famiglia affidataria bielorussa vengono dati aiuti su cui in passato non poteva contare. In ogni caso, il fatto che la bimba sia ora inserita in una famiglia, mentre prima non lo era, fa pensare che la sua accoglienza sia legata a questioni economiche e politiche. Nulla di più lontano dalla questioni affettive che animavano i suoi rapporti con la famiglia italiana e che dovrebbero essere alla base dell'adozione.
Ci si augura che la bambina accolta in una casa dove si parla la sua lingua, con il fratello, si affezioni alla sua nuova famiglia e che la stessa si affezioni a lei. Ma il dolore della separazione dalle persone che per lei si erano contrapposte a due stati non sarà del tutto cancellato. I bambini sentono chi li ama veramente, anche se poi, per poter sopravvivere, devono piegarsi alle logiche adulte che non comprendono. Spesso pare che riescano a farlo con facilità. I loro drammi, cacciati nell'inconscio, non interessano a nessuno, sono difficilmente dimostrabili, non possono diventare questioni di stato.
Si spera che la vicenda drammatica vissuta da una bimba che ha fatto sapere al mondo che negli istituti dei paesi poveri (ma anche in Italia, fino a pochi decenni fa) spesso si subiscono violenze sessuali, serva a qualcosa. Magari a qualche controllo da parte di persone oneste in quei paesi (le persone oneste ci sono dappertutto).
Potrebbe anche servire a rendere meno ambigui i soggiorni climatici dei bambini ‟di Cernobyl”.
A tale proposito mi permetto di fare una proposta ardita: distinguere, tra questi generici soggiorni di cura, eventuali affidamenti internazionali veri e propri per bambini che hanno una loro famiglia (l'affidamento internazionale ancora non è previsto dalle nostre leggi) da affidamenti preadottivi per bambini orfani o abbandonati. Questi andrebbero preparati con cura e rivolti, in una fase sperimentale, a famiglie già idonee all'adozione internazionale. Si potrebbe aprire così un nuovo canale all'adozione alla luce del sole. Un canale che veda coinvolti alcuni enti per l'adozione internazionale, capaci di favorire adozioni tra famiglie preparate e ragazzini già cresciuti. Più i bambini crescono più è difficile farli adottare e forse, non sempre, la conoscenza reale di una famiglia disponibile e non obbligata a priori ad accoglierli potrebbe permettere di trovare persone capaci di affezionarsi loro al punto di richiederli per sempre. Naturalmente con il pieno assenso dei ragazzini.
Agli operatori trovare poi il modo di non promettere adozioni che forse non si faranno ai ragazzini; alle famiglie accoglienti, che forse non adotteranno, l'obbligo di mantenere comunque con il ragazzino/a un rapporto di amicizia nel tempo. Per non deludere nessuno. Ma la vicenda di Vika potrebbe servire anche a portare l'attenzione degli operatori e dei politici sul la mancanza di rispetto per i legami affettivi dei bambini più sfortunati, in primis quelli italiani in affidamento. Lo si spera, perché vicende nazionali, meno note, ma altrettanto drammatiche rendono la cosa quanto mai auspicabile.

Carla Forcolin

Carla Forcolin (Venezia, 1950) è laureata in pedagogia e ha lavorato per venticinque anni nella scuola. Si è sempre occupata di tematiche riguardanti l’infanzia ed è presidente dell’associazione “La gabbianella …