Marco D'Eramo: Resa dei conti alla Casa bianca

10 Novembre 2006
La Casa bianca si è spaccata e le dimissioni del ministro della difesa Donald Rumsfeld sono il primo segno di questa frattura, che può rivelarsi insanabile e che rischia di far implodere tutta l'amministrazione. ‟L'unica domanda è perché diavolo George Bush non ha deciso di licenziare Donald Rumsfeld un mese fa”, mi dice al telefono Marc Cooper, analista politico dei settimanali ‟The Nation e LAweekly, collaboratore di Atlantic Monthly e autore di libri tradotti da Feltrinelli: ‟Ci devono essere un bel po' di candidati repubblicani sconfitti assai incazzati con lui, perché se avesse licenziato Rumsfeld un mese prima, molti di loro avrebbero vinto, e forse neanche Bush avrebbe perso”.
Già: perché mai Rumsfeld è stato licenziato solo a sconfitta consumata? Perché mai Bush ha detto ieri che aveva già deciso prima del voto di rimuoverlo, ma ancora 7 giorni fa ripeteva: ‟Rumsfeld sta facendo un lavoro fantastico”? La risposta è semplice: perché Rumsfeld era difeso a spada tratta dal vicepresidente Dick Cheney. I due passano le vacanze nella stessa località balneare, condividono le stesse idee e sono amici e sodali da più di 40 anni. Loro avevano fatto entrare nelle segrete stanze quei neoconservatori una parte dei quali li ha ora traditi, un'altra è stata allontanata e un'ultima giubilata: così nel 2005 Paul Wolfowitz (ideatore della ‟dottrina Bush” in politica estera) fu rimosso da viceministro della difesa e nominato presidente della Banca mondiale.
Cheney è l'uomo che poco prima del voto diceva: ‟Votare per i democratici significa votare per i terroristi”. E ‟poiché né io né Bush ci presenteremo candidati, anche dopo il voto procederemo alla massima velocità in Iraq”.
Quando mercoledì Bush si è detto ‟pronto a una piena collaborazione con il nuovo parlamento democratico”, è entrato in linea di collisione frontale con Cheney. Per capire l'entità dello strappo, basta ricordare le innumerevoli vignette che per anni ci hanno mostrato Cheney e Rumsfeld che rimboccano le coperte al giovane Bush quando lo mettono a dormire prima di passare alle cose serie, e soprattutto una battuta pronunciata dallo stesso Bush quando: ‟L'unico motivo che mi spingerebbe a essere a favore della clonazione è che così potrei clonare Cheney e Rumsfeld e non mi resterebbe più niente da fare”.
È stato ripetuto fino alla nausea che Cheney è il vicepresidente più potente della storia degli Stati uniti. L'11 settembre, e poi, in tutti gli altri allarmi di attentato, per i servizi l'uomo da salvare e da portare in un sotterraneo rifugio segreto, non era Bush, ma Cheney. Fu Cheney, con le sue connessioni petrolifere, a imporre il ripudio del trattato di Kyoto e a tenere insieme ai dirigenti della Enron (poi spazzata via da una bancarotta fraudolenta) colloqui riservati per decidere la politica energetica statunitense. Lui affidò gli appalti più succosi in Iraq all'Halliburton, di cui era stato presidente e amministratore delegato fino al 2000. Era stata l'asse d'acciaio Cheney - Rumsfeld a confinare nell'impotenza il segretario di Stato Colin Powell.
Perciò la virata di Bush è una rottura clamorosa, benché felpata, con Dick Cheney. Per Bush è come un'uscita dalla minore età, un liberarsi da una tutela divenuta ingombrante. Ma Cheney è un osso duro e non si farà mettere in disparte facilmente. Nei prossimi mesi sarà combattuta una lotta sorda senza esclusione di colpi nei corridoi e negli Uffici dietro la stanza Ovale al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Trapelano dalla ‟stampa amica” i primi indizi di questa frattura alla Casa bianca. Pur essendo sempre la voce ufficiale del capitale, come dice la sua testata, il Wall Street Journal nelle sue pagine di cronaca, inchieste e reportages è un giornale interessante e aperto; invece le pagine di commenti, editoriali e opinioni (gestite da una diversa direzione) sono quanto più vicino alla destra reazionaria sia concesso vedere nella stampa Usa. Ieri l'editoriale sulle dimissioni di Rumsfeld era titolato ‟Ritirata di Bush?”: ‟La nomina di B. Gates ci fa domandare se segnala un cambio di politica o, peggio, una nuova rinuncia, un nuovo abbandono (resignation) in Iraq”. Questa critica pesante al presidente mostra che Cheney già carica l'artiglieria per difendere le sue posizioni.
‟Ma ora quest'amministrazione combatte per la propria sopravvivenza politica” dice Marc Cooper: ‟Le elezioni sono state un cataclisma per la Casa Bianca, hanno avuto un impatto devastante. Se per sopravvivere, Bush deve buttare a mare Cheney, lo farà senza la minima esitazione. Cercherà in tutti i modi di trovare una formula bipartisan per l'Iraq. Per questo ha scelto Bob Gates, è uno pronto al dialogo coi democratici, ecco perché dimostra un'improvvisa passione per il comitato bipartisan insediato otto mesi fa dal Congresso e guidato dall'ex segretario di stato di Bush padre, James Baker, e dall'ex deputato dell'Indiana (per 34 anni) Lee Hamilton. E I democratici sono costretti a trovare un compromesso perché dicono solo: ‟Questa guerra è stata gestita da cani”, ma non dicono mai ‟Questa guerra è sbagliata e non si doveva fare”. È su questa differenza che Bush conta per farli salire a bordo della nave che affonda, quel relitto che è diventato la guerra in Iraq”.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …