Marco D'Eramo: Strage Usa. Il pianto del coccodrillo

18 Aprile 2007
C'è solo una ripetitività che è più disperante e più ripetitiva della stragi nelle scuole e nei campus statunitensi, ed è la monotona ripetitività dei commenti a questi omicidi. È vero quel che ricordava ieri Sandro Portelli, e cioè che nulla d'intelligente si può dire su una strage, ma forse qualcosa di meno trito si può dire sulle reazioni a questi massacri. Per chi si prendesse la briga di sfogliare i giornali Usa e di leggere quel che scrivevano nel 1966 dopo che 16 studenti erano stati uccisi all'università del Texas, o nel 1999 dopo i 12 morti a Colombine, ma anche dopo ognuna delle altre 18 sparatorie che hanno costellato l'ultimo decennio americano, troverebbe la stessa commozione a buon mercato che ha accolto ieri i 33 uccisi e la ventina di feriti di Blacksburg. Il lettore inciamperebbe nella stessa lacrimuccia facile per le giovani vite falciate, però sempre ammantata dal ponziopilatismo che già risalta negli editoriali del ‟Washington Post” e del ‟Los Angeles Times” di ieri che si chiedono: responsabili del massacro sono le pistole troppo facili o, al contrario, la legge bocciata l'anno scorso dal parlamento della Virginia che avrebbe consentito agli studenti di portarsi le armi a lezione (e, sottinteso, così difendersi)?
Non è quindi arduo prevedere che fra un mese o un anno avremo un altro eccidio, altri commenti, altri minuti di silenzio. Quando però si ripetono troppo spesso, indignazione, magone e sbigottimento diventano di maniera. Dietro la facciata dell'eccezionalità si legge il fatalismo della routine: gli anni passano, le stragi restano, e l'impotenza pure. Il massacro nella scuola e nel campus diventa una fatalità, come un tornado nel Midwest. Queste giovani morti diventano sistemiche, come incidenti aerei, o schianti del sabato sera. Tanto che si registrano - e si battono - i ‟record”: il grattacielo più alto, l'eccidio scolastico più sanguinoso. Tale tacita accettazione si fa lampante se la paragoniamo alla reazione che gli Stati uniti, e il mondo, avrebbero avuto se i 32 studenti fossero stati uccisi da un terrorista mediorientale: forse oggi saremmo sull'orlo di una guerra mondiale, invece che spalmati da un necrologio planetario, a dimostrazione che il peso delle morti cambia a seconda del morire. Per tradursi in tonnellate di rabbia o invece in commozione un tanto al chilo. Una nota a parte merita il nostro sguardo europeo che vede questi eventi come ‟cose dell'altro mondo”, e si autocompiace del nostro controllo sulle armi e del minore tasso di omicidi. In realtà, la densità di armi aumenta anche nel nostro continente: episodi per ora meno gravi ma simili fanno capolino in Germania; già le scuole delle banlieues parigine si dotano di metaldetector. In questo senso, negli Stati uniti leggiamo il nostro futuro, e neanche troppo lontano. A malincuore tocca ammettere che la responsabilità di queste stragi non sta tutta nelle pistole facili (ma una parte sì), e che le cause più profonde vanno cercate nel generale disinteresse e abbandono in cui vengono confinati squilibrio e devianza, nello sbrindellarsi del tessuto sociale, nella riduzione dell'anomia a fluttuazione statistica, e dell'omicidio a ‟disgrazia”.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …