Cesare De Marchi: La furia del mondo. Un romanzo tra due realtà

04 Aprile 2006
[…] Uno scrittore italiano che vive in Germania e scrive in italiano un romanzo che si svolge in Germania… In effetti il romanzo cui sto lavorando da alcuni anni si svolge alla fine del Settecento nella campagna tedesca, più precisamente al Göltenhof, una cascina nella piccola regione del Hohenlohe. Dato che al Göltenhof io ho trascorso 6 anni della mia vita, si sarebbe tentati di credere che l’idea di questo romanzo mi sia venuta da una banale circostanza biografica. E così è. Da genovese ho scritto dei racconti genovesi, da milanese romanzi milanesi, perché ora non dovrei scrivere un romanzo tedesco? Indubbiamente questa coincidenza non significa che in un lavoro letterario entri dell’autobiografismo greggio. Le cose non stanno così.
Vivere non è solo consumare tempo, ma anche affrontare ciò che accade nel tempo: tanto viviamo, tanto dobbiamo assimilare. E in questo lo scrittore non fa eccezione, salvo che per assimilare le sue esperienze egli prende una via più tortuosa, che lo allontana dalla propria vita. Niente di più impossibile che cogliere direttamente un’esperienza e raccontarla così com’è, senza averla digerita; e come non c’è romanzo che non sia almeno un po’ autobiografico, così non c’è autobiografia che non sia almeno un po’ romanzesca, perché nel momento in cui si cerca di trasfigurare letterariamente la propria vita, l’oggetto di questa trasfigurazione letteraria cambia natura: lo scrittore non vuole semplicemente liberarsi di una crisi esistenziale, ma produrre un’opera fatta di parole. A volte è fortunato come Goethe, che col suo Werther scrive un capolavoro e al tempo stesso rimuove un suo trauma; altre volte invece il poeta si ammala lavorando al suo poema, come Torquato Tasso.
Dunque ho trascorso sei anni al Göltenhof: e qui, accanto alle vicende della mia vita interiore, anche le piccole osservazioni di una vita quotidiana per me nuova cominciarono a farsi importanti: particolarmente il paesaggio, inteso anche come paesaggio agricolo, mi affascinava e operava su di me come una tardiva compensazione della mia vita metropolitana in Italia. Ecco che mi trovavo a portata di mano nuova materia per i miei sforzi letterari. Certo le proprie tematiche non si possono cambiare con uguale facilità, ma i colori e gli odori, le sensazioni e i sentimenti erano nuovi e reclamavano da me una valorizzazione letteraria. A questo si aggiungeva la veneranda età della casa in cui abitavo: sopra la porta era scritto, col nome del primo proprietario, l’anno di costruzione: 1811.
Avevo insomma uno scenario in cui la fantasia cominciava già a muoversi, ma non ancora il filo di un racconto. Che mi arrivò sì dal mio vissuto, ma da un vissuto profondo e nascosto, da pensieri, da ossessioni forse, di cui è impossibile indovinare l’origine, e che probabilmente fanno tutt’uno con la sostanza più intima dell’individuo. Da questo profondo pozzo della personalità a un certo punto affiora da sé un’idea: un’idea isolata in genere, e bisogna poi aspettare pazientemente che altre le tengano dietro… Quest’idea era l’immagine di un bambino venuto al mondo con una disposizione straordinaria per il linguaggio. Rapidamente questa sua disposizione si sviluppa in senso letterario, e il ragazzino scrive le prime poesie, che in sé sono certo immature, ma eccellenti considerata l’età del loro autore. A maturità il ragazzo non arriva perché incontra ostacoli insormontabili. Fin qui la primissima idea del racconto. Circa la natura degli ostacoli la fantasia lasciò il campo alla riflessione: potevo scegliere tra il peso della miseria, la malattia e perfino la morte. Ricordo molto bene come presi la mia decisione: considerai la sovrabbondanza con cui la natura persegue i suoi fini, come essa sparga milioni di semi per assicurare la sopravvivenza d’una sola pianta, miliardi di spermatozoi per generare una sola vita umana; sarebbe impensabile che si comportasse altrimenti proprio con la genialità letteraria! Insomma il mio giovane talento sarebbe naufragato per la sovrabbondanza della natura.
La domanda successiva che mi posi fu quando far vivere il mio personaggio. Se fosse nato subito dopo la costruzione della casa nel 1811, avrebbe vissuto in un’epoca di grande inquietudine politica e sociale, il che avrebbe dato un peso eccessivo allo sfondo storico. Bisognava che vivesse prima: prima delle guerre napoleoniche che strapparono il principato di Hohenlohe come tanti altri staterelli tedeschi al loro letargico isolamento. Sicché sarebbe nato nel 1770, l’anno di Hölderlin, Hegel, Beethoven… Una buona annata! Intanto ero casualmente venuto a conoscenza della leggenda medievale circa la costruzione della chiesa di Kirchensall, il villaggio distante appena un chilometro e mezzo dal Göltenhof. Un bel racconto, degno di un Jacopo da Varagine, che riprendo nel prologo del romanzo. Venni ancora a sapere che nel 1769 la chiesa, ormai diventata troppo piccola, fu ampliata e ne nacque un contenzioso tra il consiglio ecclesiastico e i contadini, ormai non più docili alle servitù feudali come 500 anni prima. La nuova chiesa non ha ancora le sue belle vetrate colorate quando il mio protagonista vede la luce.
Dove avrebbe vissuto il ragazzino, di nome Abel, era (come detto) già deciso: al Göltenhof. Insomma sarebbe stato figlio di famiglia contadina. Questo richiedeva altre ricerche sull’agricoltura e la vita contadina nel XVIII secolo, che mi sono state enormemente facilitate dalle opere dell’allora celebre parroco Mayer, propugnatore della coltivazione della patata e della gessatura dei campi, nonché dallo splendido museo contadino di Wackershofen. Ora questa marcata disposizione letteraria di un figlio di contadini ha già potenzialmente in sé un nucleo drammatico. La vicenda si andava man mano componendo nella mia mente. Non era difficile immaginare a che genere di avversità Abel potesse andare incontro: l’incomprensione dei famigliari, soprattutto del fratello maggiore Uli; tanto più che Abel è gracile e inadatto al lavoro dei campi.
Ma la molla della vicenda sarebbe stata la comparsa di un secondo personaggio principale: il nuovo parroco, che dopo la morte del vecchio maestro insegnerà anche nella scuola del villaggio. A lui toccherà scoprire e sviluppare il talento di Abel; e in lui è pure un secondo elemento per me di enorme interesse: il luteranesimo, dato che il parroco di Kirchensall era ed è evangelico. Ma inizialmente il rapporto tra maestro e scolaro è tutt’altro che idillico: Abel appare distratto, sia a scuola sia a casa, non segue le lezioni, e in un primo momento il parroco lo crede scemo; di scemi egli ne ha visti parecchi e non ne ha mai avuta particolare compassione, ma stranamente in questo caso non riesce a rassegnarvisi, la presunta debolezza mentale di Abel lo fa soffrire. Solo nel momento in cui vedrà il primo compito del bambino, cambierà idea e anzi arriverà a credere nella sua genialità. A questo punto chiederà ai genitori il permesso di dargli lezioni al di fuori della scuola e incomincerà a insegnare al piccolo di soli sette anni latino, storia, geometria, poi ancora retorica, logica, greco e musica. Tra i due nasce un rapporto sempre più stretto, che diverrà più intimo quando il padre di Abel si suiciderà e il ragazzo andrà ad abitare nella casa parrocchiale. Ne uscirà più tardi per frequentare il Ginnasio di Öhringen e andare incontro alla propria fine.
Così la trama era ormai disegnata; ma mi mancava ancora qualcosa, e non sapevo cosa. Non erano i personaggi secondari, che qui non ho menzionati e che non erano pochi (dalla moglie del parroco alla serva Christa, dallo scaccino ai compagni di scuola di Abel); non erano neppure i possibili punti culminanti del tessuto drammatico, già ideati a cominciare dai racconti e dalla malattia di Christa e dalla nascita e morte di una sorellina fino al primo innamoramento e alla morte del padre. A mancarmi era altro: era il rapporto con l’Italia. Mi accorsi abbastanza presto che mi sarebbe stato impossibile scrivere tutto un romanzo in italiano senza che in esso vi fosse nient’altro di italiano all’infuori della lingua. Sentivo come una coazione cui né potevo né volevo sottrarmi. Il fatto è che vivo tra due realtà e non posso rinunciare del tutto né all’una né all’altra. E così il mio parroco è venuto ad avere un passato cattolico: figlio di un artigiano cattolico di Weinsberg (cittadina del ducato di Württemberg non lontana dal confine del Hohenlohe), dopo avere studiato teologia a Colonia per qualche anno, su suggerimento del suo arcivescovo è andato a Roma, dove è stato per nove anni segretario di un cardinale. A Roma non vive male, il suo cardinale gli vuol bene, discorre con lui, incoraggia i suoi interessi; e lui celebra la sua messa mattutina, lavora nel cupo palazzo della Cancelleria, fa lunghe passeggiate, legge i classici italiani; eppure questo non gli basta. La crisi si avvicina, un verso di Petrarca che gli si affaccia alla mente in un bel giorno d’estate sulla spiaggia di Ostia, «là sotto i giorni nubilosi e brevi», gli suscita quella che in un primo momento non pare altro che nostalgia; e l’impulso che sente di andar via da Roma, a poco a poco diviene per lui una prova della servitù della volontà umana. Nelle sue stanze legge febbrilmente tre opere di Lutero che gli sono state date dal pittore danese Peder Als (personaggio storico, che dipinse un ritratto oggi perduto di Winckelmann), tra cui il Commento al libro di Giona, i periodi del quale s’intrecciano come in una variazione ai suoi pensieri e lo spingono alla decisione di lasciare Roma e convertirsi al protestantesimo.
Così ora che è a Kirchensall può insegnare ad Abel, oltreché latino e greco, anche italiano. Abel impara alla svelta, assorbe tutto; il primo sonetto che scrive è un’imitazione del sonetto alla morte di Torquato Tasso. Ora nei pomeriggi di lezione maestro e allievo parlano delle Lettere d’uomini oscuri, del Werther di Goethe, di Guicciardini e della fine di Giordano Bruno. Qui d’altra parte il limite temporale che mi sono imposto diventa piuttosto angusto; ma in compenso, che osservatorio della storia! Sulla soglia degli sconvolgimenti dell’età moderna, ma da questi non ancora toccato; nel pieno dell’illuminismo, ancora senza un presagio dell’esplodere della lotta di classe e dei nazionalismi, e meno ancora della barbarie nazista. Sicché io in questo libro non posso avanzare la domanda inevitabile: se l’avvento del nazismo era inevitabile; e tuttavia il mio parroco si domanda coscienziosamente: «Che cosa accadrà quando i nostri bravi tedeschi, tenuti finora nella bambagia dai loro paterni sovrani, saranno scaraventati nella grande storia?» Di più nel 1785 non può domandare; e altrettanto celata dovrà rimanere la citazione leopardiana a conclusione del romanzo.
Si chiederà perché io abbia spostato tanto indietro nel tempo la vicenda. Posso rispondere soltanto che l’autore è libero di procurarsi come meglio crede la distanza necessaria al narrare. D’altronde si narra sempre e solo il presente, ossia ciò che ci riguarda adesso; e non è un caso che il tempo grammaticale della narrazione sia il passato, anche là dove si raccontano cose presenti: come dire che riusciamo a dominare l’incerto del presente rappresentandolo come già passato. Il passato è quieto e reca quiete, è questo l’effetto salutare della distanza narrativa.

La furia del mondo di Cesare De Marchi

Seconda metà del diciottesimo secolo. In un piccolo villaggio tedesco. Il piccolo Abel nasce in una famiglia di poverissimi contadini: gracile di salute, ha dalla sua una sensibilità e un'intelligenza fuori dal comune. Se ne accorge il parroco e maestro, Rupprecht Radebach, un pastore luterano torm…