Marco D'Eramo: L'America avrà un presidente “etnico”

09 Ottobre 2007
Un candidato è nero, anche se molto chiaro (Barack Obama, senatore degli Stati uniti eletto nell'Illinois). Una candidata è donna (Hillary Rodham Clinton, senatrice degli Stati uniti eletta nello stato di New York). Un candidato è mormone (Mitt Romney, ex governatore del Massachusetts). Un altro è italo-americano (Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York). Un quinto (Bill Richardson, governatore del New Mexico) ha la mamma messicana: María Luisa López-Collada Márquez. Per ognuno/a è chiaro, logico e ragionevole il percorso che lo/a ha condotto a concorrere alle primarie per le presidenziali dell'anno prossimo. Ma presi tutti insieme, è uno choc. Ci mancano solo un navajo e un nippo-americano. Tanto più che due di loro hanno buone probabilità di essere candidati per la sfida finale nel novembre 2008. Solo dieci anni fa sarebbe stato impensabile. Ben lo sa l'ex governatore dello stato di New York Mario Cuomo che nel 1992 non ci provò neanche, visto il fuoco di sbarramento che prevedeva sulla mafia. Ben lo sa il reverendo nero Jesse Jackson che pure nel 1988 aveva cominciato bene vincendo le primarie in Michigan. Ben lo sa l'ex governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, le cui origini greche e valacche pesarono come un macigno sempre nel 1988 quando vinse la nomination democratica e fu spazzato via da George Bush senior. Si tenga conto che per eleggere un cattolico di origine irlandese (John Fizgerald Kennedy, 1960), gli Stati uniti avevano dovuto aspettare 174 anni e il 35-esimo presidente della loro storia. Come è potuto succedere? La prima risposta è che ci voleva il disastro perpetrato da George W. Bush e (soprattutto) dal suo vicepresidente Dick Cheney per portare a una tale, inedita distribuzione dei candidati alle primarie. Il disastro in politica estera: non solo la guerra in Iraq, ma la percezione ormai diffusa che anche l'Afghanistan è un fallimento, e il timore dell'attacco all'Iran che viene dato per quasi inevitabile in primavera.
Il disastro costituzionale, con l'abolizione (in sordina ma reale) dell'habeas corpus, l'usurpazione di poteri quasi dittatoriali da parte della presidenza. Inquietudine economica, con il deficit statale alle stelle, il dollaro debole, il petrolio a 80 dollari al barile, i salari piatti. Scatafascio sociale, con 37 milioni di poveri ufficiali, ma altri 55 milioni al limite della soglia di povertà (i cosiddetti working poors); e 45 milioni di cittadini vivono senza copertura sanitaria nel paese più ricco al mondo. Tanto che perfino l'ultraliberista l'‟Economist” si è dovuto chiedere in copertina: ‟Gli Usa stanno svoltando a sinistra?”.
La seconda risposta è che gli Stati uniti sono davvero cambiati. Non nel senso beota che fa sdilinquire gli idilliaci cantori del multiculturalismo, che vedono la ‟diversità” come un valore supremo, sintetizzato nel poter scegliere tra involtini primavera, zighinì e insalata greca. Diversità sì, ma a patto che... : gli stessi benpensanti che inneggiano alla diversità, assumono un tono assai differente, contrito, quando la sera a cena ti dicono che il loro quartiere è ‟so diverse”, come confessando una tara di famiglia, e volendo significare che ci abitano molti latinos e neri. Il cambiamento più notevole negli Stati uniti non è che il crogiuolo (melting pot) ha infine fuso i metalli (etnie e razze) in una lega, ma che gli Usa hanno accettato il proprio essere una società multirazziale e multirazzista, multietnica e multisciovinista. Giuliani potrà essere candidato, ma la prima domanda che fanno a un cognome italiano è interrogarlo su un particolare del serial tv ‟I Sopranos” che non hanno capito. Obama è popolare, ma il 50% dei detenuti resta nero. E così via. L'idea è: la maionese è impazzita, ma la trovo buona lo stesso e me la mangio con gusto.
Tanto è vero che i candidati sono meno definiti dalle loro proposte e dalla loro posizione che dal loro essere nero, donna, mormone, italo-americano... È una bizzarra evoluzione, difficile prevedere e che riguarda non tanto i valori quanto le appartenenze. I repubblicani sono in una posizione difficile e non hanno un gran coraggio; ma se osassero, un candidato come Colin Powell sbaraglierebbe qualunque democratico/a; repubblicano il presidente che abolì la schiavitù (Abraham Lincoln), repubblicano il primo presidente nero. Il problema è Colin Powell, lui stesso un coniglio politico.
La faccenda riguarda l'Italia da vicino, perché non si contano gli aspetti in cui il presente americano ha costituito il futuro europeo (tv, supermercati, obesità). Così l'antipolitica che negli Usa ha un glorioso passato dietro di sé: è mezzo secolo che per essere eletti a Washington bisogna tuonare contro Washington. E il frantumarsi della politica non in idee o programmi, ma in appartenenze spicciole, e spesso bigotte, sembra un altro tratto precursore negli Stati uniti. Basti pensare che tutti i candidati repubblicani si sono detti favorevoli o al creazionismo o a insegnare sia la teoria dell'evoluzione, sia il disegno intelligente. Dal lato democratico invece, si fa gran parlare del fatto che Obama non porta appuntata la spilla con la bandiera a stelle e strisce e che Hillary Clinton, oltre a invocare dio ogni due per tre, ha cominciato a rispondere alle domande con una risata chioccia sul cui significato s'interrogano i più austeri commentatori politici.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …

La cattura

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