Marco D'Eramo: Verso le primarie democratiche negli Usa. Barack come Walter, perfetto bipartisan

15 Ottobre 2007
‟La guerra fredda non è finita. Soldati russi in civile camminano proprio in questo momento tra di voi in questa via” dice il cartellone indossato da un fragile anziano che, perso in se stesso, borbotta a bassa voce in un piccolo altoparlante. La via è Michigan Avenue, il corso più elegante della città (che i chicagoans chiamano Boul' Mich), nel suo miglio più affollato di boutique e negozi di lusso, il Magnificent Mile, meta di pellegrinaggio di mandrie di turisti midwesteners che, carichi di acquisti, scorrono indifferenti accanto al vecchio-sandwich. Questo guerriero freddo della terza età è uno delle centinaia di migliaia di statunitensi che la deregulation psichiatrica ha - al meglio - buttato per la strada, o - al peggio - rinchiuso dietro le sbarre in alternativa al manicomio.
Fuori dagli Usa è difficile valutare l'impatto devastante di 30 anni di reaganismo. George W. Bush è soltanto l'ultimo episodio di un serial a cui solo con molta timidezza, reticenza, e solo in parte dicono di voler porre fine i candidati democratici che si contendono la nomination alle elezioni dell'anno prossimo.
Solo uno dei tre candidati di punta, John Edwards, propone una riforma della sanità che si avvicina in qualche modo a un servizio sanitario nazionale. Ma se la prudenza di Hillary Clinton è comprensibile - sulla riforma sanitaria si è già bruciata 14 anni fa - molto meno logica è quella di Barack Obama, il candidato che più entusiasmo aveva suscitato in primavera nei ranghi democratici e che rischia di trasformarsi in un doloroso paradosso per sé e per i suoi fans. Non c'è chicagoan infatti che non parli del ‟carisma” di Obama. Non supisce l'entusiasmo di John Wilson che ha appena scritto un libro su di lui ed è stato suo studente all'università (‟Non avrei mai pensato che potesse diventare un politico, troppo riflessivo, analitico”). Né meraviglia troppo la stima che ne ha Laura Washington, fondatrice ed editrice del magazine afro-americano The Chicago Reporter, ora docente universitaria e columnist, donna elegante, sobria, esponente di spicco della ‟nuova borghesia nera”, sposata a un gallerista bianco: me ne parla in termini incondizionati davanti a un bicchiere di vino californiano. Ma si spertica per Obama persino un uomo come Steve Chapman, che usa il bilancino per professione (è editorialista di un giornale centrista come il Chicago Tribune: 570 mila copie, 940 mila la domenica): ‟Ha qualcosa di speciale, qualcosa che non ho sentito in nessun altro politico che ho incontrato”.
Bravo a raccogliere fondi
Non solo. Obama ha dimostrato una straordinaria capacità di raccogliere fondi, battendo su questo terreno persino un'esponente navigata, spregiudicata come Hillary Clinton: alla fine di settembre Obama aveva raccolto in tutto 79 milioni di dollari, contro gli 81 di Hillary Clinton (i 30 di Edwards e i 35 di Rudolph Giuliani tra i repubblicani), ma per le primarie Obama dispone di 75 milioni di dollari, mentre Hillary solo di 62,6. Inoltre i repubblicani si augurano ardentemente che sia lei a ottenere la nomination: un bersaglio più facile, con più debolezze. Eppure, mentre a giugno Obama era riuscito a rimontare quasi tutto lo svantaggio, da allora la Clinton ha cominciato a ridistanziarlo: a luglio aveva l'appoggio del 41% tra i democratici e i simpatizzanti, contro il 27% di Obama, e ora è al 45% contro il 24%.
‟La ragione fondamentale di questa debolezza - mi dice l'esperto consulente politico Dan Rose - è l'eccessiva prudenza, cautela, il prematuro spostamento al centro di Obama che non gli ha attirato affatto le simpatie dei lavoratori”: tra i votanti democratici con un reddito annuale lordo inferiore ai 30.000 dollari, Hillary batte Obama 72 a 26, mentre i due sono alla pari tra i redditi superiori ai 75 mila dollari. Negli Usa la teoria politica dominante (smentita però da Karl Rove e George Bush nel 2004) è che ti devi spostare all'estremo del tuo schieramento per le primarie, in cui votano i militanti e gli attivisti più motivati, e poi - dopo la nomination - ricalibrarti al centro per le elezioni generali. Obama si è messo al centro fin dall'inizio e ha adottato fin da subito una strategia ‟veltroniana”, invitando a ‟superare i vecchi steccati” tra destra e sinistra, auspicando collaborazione bipartisan con i repubblicani e, talvolta, votando con i conservatori nel Senato degli Stati uniti. Persino un moderato come Steve Chapman trova che Obama sia troppo cauto. In quest'ottica di cautela si capisce meglio la sua reticenza sulla riforma sanitaria.
C'è da chiedersi però quanto paghi questa strategia. All'inizio Obama contava sulla propria opposizione alla guerra in Iraq (non era in senato nel 2002, quando Hillary Clinton votò a favore), ma questo fattore è evaporato. Un po' perché Clinton si è riposizionata e ormai oppone (a parole) la guerra. Un po' perché John Edwards (che pure nel 2002 aveva votato a favore), ha poi chiesto scusa e da tre anni è decisamente contro. Un po' perché Bill Richardson, governatore del New Mexico, è l'unico tra i candidati democratici a essersi impegnato a ritirare tutte le truppe dall'Iraq entro un anno dal suo giuramento: ed è per questo che sta lentamente salendo in tutti i sondaggi.
Ma soprattutto perché, molto chiaro sul passato (‟Una guerra che non si doveva fare”), Obama è assai meno netto sul presente e sul futuro, mantenendosi sul vago su come districarsi dal ginepraio iracheno - quando non commette vere e proprie gaffe, come dire che da presidente sarebbe pronto a bombardare il Pakistan per inseguire al Qaeda, tanto che gli attivisti radicali hanno cominciato a chiamarlo O-bomber (che in americano si pronuncia all'incirca ‟Obamba”).
Se Ophrah lo sostenesse in tv...
‟Adesso Obama è in una fase piatta - dice Dan Rose - che può precedere un crollo o un nuovo picco. Certo che ha bisogno di qualcosa che lo rivitalizzi, di prendere posizioni che lo differenzino dagli altri. Non può contare solo sulla sua straordinaria biografia, di ragazzo nero diventato direttore della rivista di legge di Harvard. Certo che ti votano per l'uomo o la donna che sei, ma ti votano anche per le posizioni che prendi. Ora Obama ha ricevuto l'appoggio - per ora solo privato - di Ophrah Winfrey (afroamericana ospite del più visto talk show della tv Usa). Se Ophrah lo sostenesse nella sua trasmissione, le cose cambierebbero, soprattutto tra i neri democratici che per ora gli preferiscono di gran lunga la bianca Hillary. Qui conta il ‟fattore Bill”, assai popolare tra gli afroamericani: fece epoca la battuta di Tony Morrison: ‟Clinton è stato il primo nero a essere eletto presidente degli Stati uniti”.
Il moderatismo di Obama è dovuto anche alla sua traiettoria di vita, all'essere stato per anni un community organizer (vedi la puntata precedente, pubblicata l'11 ottobre) che doveva mettere d'accordo rissosi vicini di casa, far cooperare abitanti di un quartiere che si odiavano. Ma lo stallo della sua popolarità dimostra proprio che uno stato non può essere governato come un condominio e un quartiere, che nella più grande potenza del mondo agiscono interessi potenti che ti chiedono di schierarti pro o contro, e con cui non puoi fare il pesce in barile. Soprattutto dopo anni di estrema polarizzazione a destra che ha ingigantito le disuguaglianze, impoverito i ceti medi, inquinato l'ambiente, militarizzato il paese, abrogato le garanzie costituzionali. Questo è l'esito del governo repubblicano. E la gente non si entusiasma per te quando ti sente dire che è con questa risma di politicanti che tu vuoi collaborare in modo bipartisan. Come quando ti proponi di essere bipartisan con Silvio Berlusconi.
‟L'unica speranza per Obama”, dice Dan Rose, ‟è che Hillary vada abbastanza male nelle primarie di gennaio, nello Iowa, nel New Hampshire, nel South Carolina, in modo che la propria candidatura diventi più credibile. Questa credibilità gli permetterebbe di affrontare meglio il terribile 5 febbraio quando si tengono nello stesso giorno le primarie di California, Illinois, New York. Tenga conto che nelle primarie democratiche vale il sistema proporzionale: ogni candidato ottiene una fetta dei delegati attribuiti a uno stato proporzionale alla percentuale che ha ottenuto nella primaria di quello stato: in quel giorno Obama vincerebbe in Illinois e potrebbe avere più voti a New York di quanti Hillary ne abbia qui a Chicago. A quel punto i giochi si riaprirebbero e anche gli elettori neri sarebbero più convinti nel sostenerlo. Ricordi che nel 2004, quando si presentò per il senato degli Stati uniti, anche allora all'inizio la comunità afro-americana era diffidente nei suoi confronti, ma poi lo votò in massa. Ecco perché Obama sta puntando molto su Iowa e South Carolina (dove il fattore razziale è importantissimo, n.d.r.). In Iowa dispone di un esercito di 7.000 attivisti venuti dagli altri stati a fare campagna per lui. Ma quello di cui ha bisogno Obama è minore cautela, minore tatticismo, prendere posizioni più decise”. Altrimenti potrebbe non bastare l'essere ‟il solo nero che non mi faccia vergognare di essere bianca”, come ha detto di lui una militante democratica. (2 - fine)

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …