Marco D'Eramo: Pioggia d'oro sui candidati democratici

07 Novembre 2007
‟Stavolta la finanza e gli affari si stanno spostando sui democratici”, mi dice nel suo studio a Soho l'economista Doug Henwood, editore della news-letter Left Business Observer, collaboratore economico delle maggiori testate progressiste Usa, autore di vari libri: The State of Usa. Atlas: The Changing Face of American Life in Maps (1994, tradotto anche in francese), Wall Street (1997), A New Economy? (2000), After the New Economy (2003).
Che il gran capitale si stia un po' pentendo della carta bianca firmata ai repubblicani nel 1994, lo aveva già notato il ‟Wall Street Journal” in un lungo, preoccupato articolo che iniziava in prima (‟Il Partito repubblicano sta perdendo la sua presa sul voto del 'Core Business'‟). D'altra parte non c'era bisogno di un'aquila per sospettarlo, visto l'enorme dislivello dei fondi raccolti nei primi nove mesi di quest'anno dai repubblicani e da quelli democratici sia per le primarie, sia per la campagna presidenziale del prossimo anno: i primi otto democratici hanno accumulato 242 milioni di dollari; i primi otto repubblicani solo 173 milioni di dollari, quasi un terzo di meno (79 milioni di dollari).
La senatrice Hillary Clinton ha ricevuto 90 milioni, il senatore afroamericano Barak Obama 80, mentre il primo repubblicano, l'ex governatore del Massachusettes, il mormone Mitt Romney, ha raccolto 63 milioni (ma in buona parte attingendo dal proprio patrimonio personale), mentre l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani, il favorito alla nomination repubblicana, è solo a quota 47 milioni. E per quanto i democratici sostengano di ricevere una miriade di piccoli contributi via Internet, cifre simili non si mettono insieme se non intervengono i portafogli pesanti.

Il disastro della guerra
Non è una novità. Una buona parte dell'establishment finanziario, in particolare quello del Nord-est degli Stati uniti, ha appoggiato i democratici almeno quanto i repubblicani. Per esempio, il consulente economico e poi per 4 anni, il ministro del tesoro di Bill Clinton era Rober Rubin, vicepresidente e poi co-presidente di uno dei pilastri di Wall Street, la grande banca d'investimento Goldman Sachs. Solo negli ultimi anni l'establishment nord-orientale ha abbandonato i democratici, infatuato dai tagli alle tasse, in particolare quelle sul capitale e sulle rendite finanziarie, propugnati dai repubblicani. Ma non si aspettavano di rimanere invischiati nel disastro provocato da Bush in Iraq, nell'enorme deficit statale e nell'egemonia dei fondamentalisti cristiani di destra.
Il prototipo del finanziere del Nord-est era Nelson Rockfeller, moderato, liberal, falco in politica estera. L'interesse delle multinazionali non implica propagandare il creazionismo. È vero che i nuovi finanzieri sono cresciuti alla scuola dei Chicago Boys e sono quindi molto più estremisti dei loro predecessori, ma forse proprio per questo sono scandalizzati dal veder calpestata quella che considerano l'ortodossia fiscale: ridurre al massimo le tasse e le spese dello stato, con un pareggio di bilancio. Quello che è successo col secondo Bush (ma l'andazzo era già stato inaugurato da Ronald Reagan), il taglio delle tasse è andato di pari passo con un enorme aumento delle spese, in particolare militari (negli anni '80 Reagan aveva varato il programma di guerre stellari, il giovane Bush ha già speso 600 miliardi di dollari per la guerra in Iraq, oltre ai 450 miliardi di dollari del bilancio annuale del Pentagono).

Il ruolo dei fondamentalisti
I repubblicani hanno avuto il totale controllo della vita pubblica del paese dal 2001 al 2007, con una forte maggioranza alla camera, al senato e con un presidente loro. Ebbene in questi anni, altro che small government, le spese statali sono cresciute. Non solo. Durante le due presidenze Bush i conservatori cristiani fondamentalisti hanno conquistato sul partito repubblicano un predominio che ne condiziona le scelte parlamentari.
‟La destra fondamentalista, dice Doug Henwood, è profondamente xenofoba - in fondo sono i discendenti diretti della John Birch Society, razzista e vicina al Ku-Klux-Klan - ed è per non irritarla che i parlamentari repubblicani hanno bocciato una legge sull'immigrazione, proposta dal loro presidente, che avrebbe reinserito nella legalità più di 12 milioni di clandestini che oggi lavorano in America. È per gratificarla - siamo alla vigilia di una stagione elettorale - che sono state inasprite le misure di controllo delle frontiere e di deportazione dei clandestini. Risultato: comincia a esserci una scarsità di mano d'opera. E questo per il gran capitale e per la Fed non va proprio bene: quando il mercato del lavoro è stretto, non solo i salari tendono ad aumentare, ma la classe lavoratrice si sente più forte e cerca di strappare contratti migliori. C'è quindi una contraddizione di classe all'interno del partito repubblicano. Gli interessi del gran capitale configgono con l'ideologia dei conservatori. L'immigrazione è una delle ragioni per cui finanza e industria sono disamorati dei repubblicani”. ‟E poi c'è una tradizione di pensiero dominante nei consigli di amministrazione, secondo cui i repubblicani sono più bravi a gestire le fasi in cui bisogna raffreddare l'economia, e i democratici sono più bravi a innescare la fase espansiva, anche negli ultimi decenni quelli che hanno scavato i buchi più profondi nei bilanci statali sono i repubblicani, mentre sotto Clinton il bilancio è andato in pareggio e anche in attivo. Però sotto Clinton si sono creati tantissimi posti di lavoro, mentre nella fase di espansione che è appena finita, 2002-2006, quella dovuta al boom immobiliare, c'è stato l'incremento di occupazione più debole che in qualunque altra fase espansiva del secolo.

Puntare sul cavallo vincente
Grazie alla bolla immobiliare creata dalla politica dei bassissimi tassi di sconto praticata dalla Federal Riserve, si calcola che, il ripianamento dei mutui abbia iniettato liquidità per più di 2.000 miliardi di dollari che sono andati al consumo e hanno fatto girare l'economia, hanno cioè nascosto la debolezza dei fondamentali: infatti anche gli investimenti in questi anni sono stati bassissimi. Ecco perché i consigli di amministrazione ora puntano sui democratici per far ripartire l'economia. Per esempio Goldman Sachs, che era tradizionalmente democratica, nel 1994 era passata a sostenere i repubblicani, paradossalmente proprio mentre era uno dei suoi ex presidenti a gestire l'economia Usa sotto Clinton, ma ora è tornata ai democratici”.
Ma sono altre due le ragioni fondamentali per cui il mondo degli affari si è spostato. ‟La prima è che naturalmente vogliono scommettere sul cavallo vincente: dato che i democratici sono dati per favoriti nel 2008, è meglio non averli contro, anzi, metterseli dalla propria parte” dice Doug Henwood.
‟La seconda è che il gran capitale si sente perfettamente al sicuro con i democratici, non pensano che possano essere messe in pericolo né prerogative, né prebende. L'atteggiamento del settore della sanità è emblematico di queste due motivazioni. A prima vista potrebbe sembrare paradossale che, proprio quando tutti (nessuno escluso) i candidati democratici promettono una riforma sanitaria che in teoria dovrebbe penalizzare i profitti del settore privato, proprio allora case farmaceutiche, assicurazioni malattia, sistemi di gestione, catene di ospedali privati, dottori, tutti si mettono a dare più soldi ai democratici che ai repubblicani. Ha visto le cifre fornite dal New York Times? Fino a ora questo settore ha contribuito alla campagna con 11,3 milioni di dollari di cui 6,5 (58%) sono andati ai democratici e 4,8 (42%) ai repubblicani.
Questa è un'enorme inversione di tendenza. Nel 2000 i finanziamenti del settore erano andati per il 69% ai repubblicani e solo per il 31% ai democratici (in ogni caso si finanzia sempre anche il partito che non si vuole, come forma di assicurazione). Nel 2004 ai repubblicani era andato il 56% dei contributi. Perché questo ribaltamento? Una parte è dovuta appunto alla previsione che vinceranno i democratici. Un'altra è che comunque i candidati presenteranno una riforma compromissoria che non danneggerà davvero in modo serio gli interessi del settore privato. Lo si vede in modo eclatante dal fatto che a ricevere i maggiori contributi (2 milioni di dollari, è Hillary Clinton che ha fatto della sua (pasticciatissima) riforma sanitaria il proprio cavallo di battaglia: la sanità privata sa (e vuole) che la sua riforma non costituisce un pericolo. Più in generale, nelle piattaforme elettorali dei candidati democratici non c'è nulla che possa ledere gli interessi del gran capitale”.

Contraddizioni democratiche
Il ‟Wall Street Journal” quantifica così il sostegno della finanza ai democratici: nel 1996 il settore dei titoli (securities industry) indirizzava i propri contributi politici al 58% per i repubblicani e al 42% per i democratici. L'anno scorso (quando si sono tenute le legislative di mezzo termine) solo il 45% dei contributi è andato ai repubblicani e il 55% ai democratici.
Il settore degli Hedge Funds si è spostato in modo ancor più deciso: l'anno scorso il 77% dei suoi contributi sono andati ai candidati democratici, in crescita persino rispetto alla percentuale, già altissima, del 2004. Più in generale, la perdita di consenso dei repubblicani è tale che mentre tre anni fa il 44% dei professionisti e manager si identificava come repubblicano, ora solo 37% di loro lo fa (queste percentuali non vogliono dire che tutti gli altri siano democratici, perché poi vi sono gli indipendenti e gli indecisi).
Il risultato è che ora le contraddizioni di classe ripassano in campo democratico. La base operaia vuole una limitazione del trattato di libero commercio e misure protezioniste per difendere i posti di lavoro, l'imprenditoria è invece evidentemente interessata al massimo di apertura delle frontiere. Le stesse contraddizioni rischiano di esplodere anche negli altri tre settori decisivi per la base elettorale democratica: la sanità, le pensioni, la scuola.

L'eresia fiscale
L'unica soluzione - conclude Henwood - sarebbe per i democratici un grande piano di opere pubbliche, visto che le nostre infrastrutture - ponti, strade, ferrovie, reti elettriche, aeroporti - stanno letteralmente andando in rovina. Questo piano consentirebbe aumento dell'occupazione, la ripresa economica e anche succosi profitti per il capitale. Ma nessun democratico si sogna di proporlo perché per finanziare queste opere pubbliche bisognerebbe reintrodurre una parziale progressività fiscale e questo, nei tempi che corrono, è una tabù, un'eresia che ti può mandare al rogo (politicamente parlando)”.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …