Marco D'Eramo: Primarie 2008. La donna, il nero, l'eretico e il mormone

05 Febbraio 2008
Nulla quanto queste primarie ci sbatte sotto gli occhi la portata della vera e propria rivoluzione compiuta in questi sette anni dalla squadra di George W. Bush, un presidente che ha saputo trarre enorme profitto dall'essere troppo sottovalutato. Intendo qui rivoluzione conservatrice nel senso usato da Jeffrey Herf per descrivere il modernismo reazionario che si diffuse in Europa negli anni '20 del secolo scorso.
Possiamo vederlo con chiarezza ora che à arrivato al nodo il processo di selezione dei candidati alla corsa presidenziale. Oggi infatti si vota per le primarie in 22 stati che assegneranno il 52% dei delegati della Convention democratica e il 41% di quella repubblicana. Senza il tornado provocato dal duo Bush-Cheney, in ambito democratico non starebbero a contendersi la nomination una donna (Hillary Rhodam Clinton) e un nero (Barack Obama), e in quello repubblicano un ribelle-antipartito (John Mc-Cain) e un mormone (Mitt Romney). Solo lo scombussolamento di questi sette anni poteva spazzare via la saggezza politica consolidata secondo cui è suicidario presentare alla presidenza un senatore (o senatrice) troppo ricattabile per la sua carriera ‟politicante”, ed è perdente candidare politici del nord-est visto il peso (demografico e culturale) del sud-ovest. Della vastità e profondità di questa rivoluzione reazionaria è difficile dubitare. La redistribuzione della ricchezza ottenuta con i tagli alle tasse (in grandissima parte a favore dei ricchi) ha fatto sì che oggi i 300.000 americani più ricchi dichiarino un reddito cumulativo pari a quello dei 150 milioni di statunitensi più poveri, una disuguaglianza che, come dice Paul Krugman, non si vedeva dal tempo dell'Egitto dei faraoni. L'influenza dei cristiani conservatori sulla vita politica del paese ha raggiunto livelli sconosciuti persino negli anni della moral majority che portò al potere Ronald Reagan. Si noti che ‟cristiani conservatori” è un eufemismo per indicare quella fetta di opinione pubblica che discende per via diretta da organizzazioni razziste come la John Birch society. Al tramonto dell'era Bush, le scuole di tutti gli Stati uniti si stanno risegregando a ritmo forsennato, grazie anche alle sentenze della Corte suprema, modellata a immagine del presidente con la nomina di alcuni giudici reazionari (come John Roberts, e Samuel Alito).

Un paese in guerra permanente
Lo sconvolgimento dell'assetto costituzionale è pari solo a quello che a metà dell'800 Karl Marx chiamò Il 18 brumaio di Luigi Napoleone Bonaparte. L'amministrazione Bush si è arrogata prerogative e poteri presidenziali che sfiorano l'autocrazia. Il presidente può ordinare alle agenzie di spionaggio di prelevare (rendition) in ogni paese del mondo qualunque personaggio consideri pericoloso, portarlo in prigioni segrete, farlo processare in segreto da tribunali militari, che in segreto possono condannarlo a morte. In chiaro: ognuno di voi può essere prelevato nottetempo in Svezia o in Giappone e mai più essere visto su terra senza che nessuno sappia nulla: paradossalmente Guantanamo è ancora l'esito più lieve e ‟civile” di questo potere presidenziale. Il presidente può ordinare intercettazioni su chiunque senza autorizzazione giudiziaria. Il presidente può far detenere indefinitamente cittadini americani o stranieri, senza che siano oggetto di alcuna accusa specifica, purché siano targati come ‟nemici combattenti”. In pratica Bush ha abolito negli Stati uniti il principio dell'Habeas corpus. Nel frattempo il paese è stato posto in stato di guerra permanente, la cosiddetta ‟guerra al terrore” (ideologicamente figlia della ‟guerra alla droga”, ‟guerra al crimine”). E si sa che lo stato di guerra è spesso sinonimo di stato d'assedio. Ormai negli aeroporti sembra naturale presentare tutte e dieci le dita per le impronte digitali, farsi fotografare, togliersi le scarpe, farsi frugare, dover privarsi delle letali forbicine da unghie, sottoporsi a interrogatori più che fastidiosi, a ritardi costosi in termini di coincidenze perse, sorveglianze e intercettazioni sempremeno discrete, anzi invadenti al limite del comico. Senza parlare delle guerre vere in Afghanistan e in Iraq.
Di fronte a questo vero e proprio cataclisma istituzionale, ricattata dall'11 settembre 2001, l'opinione pubblica Usa ha reagito prima con entusiasta adesione, poi con rassegnata accettazione, indi con impotente mugugno (un tempo il mugugno era l'unica forma di protesta consentita alle ciurme contro i capitani impopolari), infine con distratta irritazione e, oggi, con svogliata volontà di girare pagina.
Da qui la scelta di candidati come Barack eHillary, che nelle loro stesse persone danno l'immagine del voltare pagina, o comeMcCain, fuori dal mainstream repubblicano (un falco anti-tortura, un conservatore economico favorevole a misure ambientali, non contrario all'aborto..) o Mitt Romney, assai sospetto agli evangelici. Si sarebbe perciò portati ad ammirare la capacità di risposta del sistemapolitico statunitense, se non andassimo a guardare un po' più da vicino questa risposta. Intanto la contesa Hillary- Barack è diventata sempre più Roma-Lazio o Inter-Milan. Da mesi siamo assillati dall'oscillare dei sondaggi, come una tappa a cronometro in cui un concorrente è avanti di tot, e l'altro rimonta o resta più indietro. Può darsi che i candidati abbiano programmi, proposte concrete, ma il centro della contesa non sta lì, sta in una contrapposizione di simboli: la ‟neritudine ‟ contro la ‟muliebrità”. Questa disfida tra emblemi, più che tra candidati, ha cancellato la politica. O meglio, è la risposta impolitica data alla crisi della politica che traversa gli Stati uniti in modo ben più chiaro che l'Italia. Si poteva pensare che l'alleggerirsi dell'ipoteca terroristica e il disserrarsi del ricatto della paura potessero dischiudere un ritorno della politica. Così non è stato. All'inizio, sembrava che la discussione sulla guerra in Iraq potesse svolgere questa funzione.Ma con l'apparente (anche se con ogni probabilità transitorio) successo del Surge, cioè della contemporanea politica di rafforzamento del contingente Usa a Baghdad, e della trattativa con i capoclan sunniti (fino a ieri nemici, cui ora vengono erogati finanziamenti e a volte persino armamenti), anche su questo tema la campagna si è fatta assai più discreta (tranne McCain, che da sempre sosteneva l'insufficienza del contingente attuale, e che ora fa la ruota come un pavone: ‟L'avevo detto io!”).

Proposte timide e vaghe
Il disappunto cresce se si pensa che di norma, durante le primarie i candidati si rivolgono all'ala più radicale e militante del proprio partito (a sinistra per i democratici e a destra per i repubblicani), per poi convergere al centro in autunno durante la campagna elettorale vera e propria. Se si pensa cioè che, nello scontro vero repubblicani/democratici, i candidati saranno assai centristi, moderati e prudenti: già adesso, e non a ottobre, Hillary e Barack stanno esprimendo il massimo del loro ‟progressismo” e coraggio.
Allora, se si confrontano le loro parole con la portata della rivoluzione reazionaria dell'era Bush, sembrano bambini che vogliono affondare una corazzata a sassate.
Nulla dicono davvero (o qualcosa d'ineffabilmente vago) sul restaurare lo stato di diritto, sull'abrogare i decreti presidenziali su renditions, torture, intercettazioni. Rispetto alla risegregazione, siamo tutti ‟postrazziali ‟, n'est-ce pas? Rispetto alla separazione tra stato e chiesa, che Bush ha più e più volte infranto (con finanziamenti pubblici a iniziative confessionali, o coinvolgendo chiese in iniziative pubbliche), la risposta è stata una tale rincorsa al bigottismo che ‟Hillary Clinton nomina dio più spesso del vescovo medio europeo” (The Economist). Sul tema della xenofobia e dell'ostilità contro gli immigrati (altro esito del neo-bushismo), si muovono tutti sulle uova. Soprattutto, è su una controriforma fiscale profonda, su una effettiva redistribruzione dei redditi al contrario, che le proposte sono di una timidezza virginale. Dopo un masnadiero che ha tolto ai poveri per dare ai ricchi, non si scorge nessun Robin Hood, nessuna Marian all'orizzonte. Come se fosse ormai irreversibile una larga parte della rivoluzione reazionaria appena conclusasi.
Ciò non toglie che domani mi sveglierò all'alba per vedere chi ha vinto nel ‟supermartedì”, se tocca a Hillary o a Obama (McCain sembra abbastanza sicuro di ottenere la nomination). Perché, per quanto esile sia il margine di cambiamento e di differenza che offrono questi due candidati rispetto a Bush, esso rappresenta pur sempre un capitolo nuovo anche per noi sudditi dell'impero, che - come in altro contesto 2000 anni fa - siamo ridotti a sperare in un Cesare più clemente e meno inumano.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …