Marco D'Eramo: Primarie 2008. Tutte le facce dell'America

07 Febbraio 2008
Come il più classico tribunale italiano, nel giorno del giudizio il popolo sovrano degli Stati uniti ha rinviato la sentenza a data da stabilire. Ma non per questo, quel che era stato soprannominato il ‟martedì tsunami” - con primarie in 24 stati -, si è risolto in un'increspatura spumosa. Certo, è stato deluso il telespettatore mondiale che si aspettava lo scioglimento della soap opera a favore di Hillary Rodham Clinton o di Barack Obama: il tormentone durerà per molte altre puntate, con ogni probabilità fino alla Convention compresa. E, per chi fosse interessato soprattutto all'aspetto derby, per Hillary il risultato decisivo è aver stoppato il momento ascendente di Obama, aver esaurito il suo impulso. Da un punto di vista nazionale, per lei il supermartedì equivale a quel un mese fa che era stato il New Hampshire rispetto allo Iowa. Per Obama invece l'esito è infinitamente migliore di quel che sperasse due settimane fa e assai peggiore di quel che si aspettava l'altroieri. Niente incoronazioni, ma molte disquisisizioni.
La verità è che a emergere con maggiore chiarezza è stata la profonda spaccatura interna a ogni partito, frattura che convive invece con un'ovattata coltre di nebbia sulle differenze tra i due partiti. Ed è curioso che la frattura più genuinamente politica traversi il campo repubblicano e non quello democratico.
Tra i repubblicani infatti, dove pur McCain ha vinto bene, non tutti i giochi sono chiusi e il sistema maggioritario con cui vengono eletti i delegati alla Convention non può nascondere che i due candidati ‟perdenti”, Mitt Romney e Mike Huckabee, hanno ricevuto in quasi tutti gli stati un voto combinato quasi sempre superiore a quello del vincitore McCain, né che Romney domina incontrastato la regione delle Montagne Rocciose, mentre Huckabee vince alla grande in sei stati della Bible Belt, il sud bigotto degli Stati uniti. McCain può ottenere la nomination, ma quanto alla piattaforma e al vicepresidente, tutto è ancora aperto, e resta da vedere se i conservatori cristiani - che in vari stati hanno plebiscitato il pittoresco Huckabee - si degneranno a novembre di uscire di casa per andare a votare un McCain indiziato di ateismo.
Tra i democratici invece la spaccatura costituisce una sorta di formidabile regressione politica. Non verte né sui programmi, né sulla posizione nello schieramento, che Hillary e Barack condividono in larga misura: ambedue moderati, ambedue vicini al centro. È una frattura identitaria: hanno votato per Obama più i neri, i maschi, i giovani, gli istruiti e gli agiati, mentre per Hillary hanno votato più gli ispanici, le donne, i disagiati, gli anziani, i meno istruiti. E, con la politica identitaria, rientrano in gioco le ostilità meno confessabili, come l'antipatia razziale tra neri e ispanici. Visto che martedì non si è deciso nulla, la competizione si farà sempre più accanita. Dentro il Partito democratico si acuirà la contrapposizione tra vecchi e giovani, bianchi e ispanici, uomini e donne, spezzandolo su base di età, di genere, di censo, di razza. Una frantumazione che sarà difficilissimo ricomporre. Ma che, soprattutto, lascia basiti: è davvero questa la risposta ‟progressista” al desolato panorama di macerie civili e politiche che George Bush lascia in eredità agli Stati uniti? Una risposta identitaria? Piccole Bosnie crescono, nella testa di ognuno.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …