Marco D'Eramo: Primarie Usa. Autolesionismo democratico

06 Maggio 2008
Quante volte negli ultimi tre mesi abbiamo scritto che oggi si potrebbe decidere la nomination democratica? Tantissime. Ebbene, ci tocca ridirlo ancora una volta. Oggi si tengono infatti due primarie in Indiana e North Carolina, due stati non enormi, che di per sé non sarebbero decisivi, ma che lo diventano per la data in cui devono scegliere tra Barack Obama e Hillary Clinton. L'incertezza sul risultato immediato non è grande, ma quella sull'esito finale è enorme.
L'unica certezza è che fino a oggi il partito democratico ha fatto il possibile per perdere: ce l'ha messa proprio tutta. Vi ricorda forse qualcosa? Anche se il ricordo che ricordate non è l'elezione del presidente degli Stati uniti, anche e se le ragioni di questo ricordo sono del tutto diverse sulle due sponde dell'Atlantico. In un anno infatti in cui tutto sembrava congiurare per garantire che il nuovo inquilino della Casa bianca sarebbe stato democratico, la dinamica delle primarie sta dando nuovo fiato e nuove speranze al candidato repubblicano, il senatore dell'Arizona John McCain. A favore dei democratici giocavano fattori pesantissimi: la pesante crisi economica accresce lo scontento degli statunitensi nei confronti dell'amministrazione Bush; la guerra irachena continua a lasciare la sua stanca, ma micidiale scia di morti e distruzioni; l'indice di gradimento è uno dei più bassi dell'ultimo secolo per un George W. Bush considerato quasi all'unanimità il peggiore presidente della storia degli Usa; una lunga serie di scandali ha colpito deputati e senatori repubblicani, facendo svanire il sostegno dei cristiani conservatori. Questo faceva sì che una presidenza democratica veniva data a 60 contro 40. Ma fin dall'indomani dell'Iowa, ogni volta il tanto atteso colpo da Ko da parte di Obama non è arrivato. Dopo che il senatore dell'Illinois ha stravinto in South Carolina, i grandi stati come New York, California, Massachusettes hanno risollevato le sorti della combattiva senatrice. Obama avrebbe potuto chiudere la partita in Texas e Ohio a inizio marzo, e invece questi due stati nevralgici sono andati alla Clinton. Altra chance ad aprile in Pennsylvania, ma anche lì ha vinto la Clinton. Oggi siamo nella stessa identica situazione. Se Obama vince in Indiana e North Carolina, Hillary dovrà per forza gettare la spugna. Se invece - ed è il risultato più probabile - Obama vince in North Carolina (stato con una forte presenza nera), ma perde invece in Indiana (classe operaia bianca), allora il tormentone continuerà fino alla Convention nazionale di agosto a Denver (Colorado). L'esito in Indiana è particolarmente interessante perché questo stato è di fatto una dépendence dell'Illinois (di cui Obama è senatore) e la sua grande città industriale, Gary, sull'estremo sud del lago Michigan, è di fatto una periferia di Chicago. Il paradosso di questo scontro tra una donna e un nero è che ha finito per rafforzare la centralità elettorale del maschio bianco nell'arena politica statunitense. All'inizio la forza di Obama era stata di aver presentato la sua candidatura come ‟postrazziale”: candidato nero sì, ma non candidato dei neri. E stati a stragrande maggioranza bianca come Iowa, Vermont, Idaho, Nebraska gli hanno dato ragione regalandogli folgoranti vittorie. Ma la lunghezza della competizione, la sua asprezza, e - in una certa misura - gli stessi successi di Obama negli stati a forte densità nera, hanno finito per logorare in modo forse irreparabile quest'immagine ‟postrazziale”. Le affermazioni ‟estremiste” del pastore nero Jeremiah Wright sono state solo uno dei fattori che hanno contribuito al ‟disincanto” degli elettori bianchi. Non basta: in nome del ‟nuovo”, del ‟cambiamento” e del ‟superamento dei vecchi steccati”, Obama si era presentato come candidato capace di attirare gli elettori indipendenti e i repubblicani insoddisfatti. Ma la stessa dinamica della campagna lo ha costretto a contare sempre di più sul proprio nucleo di attivisti attestati su posizioni assai più radicali e liberal. Grazie anche ad alcune sue affermazioni, l'aura bipartisan e messianica si è dissolta fino a restituirlo a una dimensione più convenzionale. I propagandisti repubblicani lo ritraggono ormai come ‟il solito liberal” (sottintendendo che sarà possibile affondarlo con le solite tecniche propagandistiche già usate per Gary Hart, Michael Dukakis, John Kerry). Il logoramento di Obama è apparso anche questo sabato nel caucus di Guam, che il senatore dell'llinois prevedeva di conquistare alla grande, ma che ha vinto per pochi voti: fino a sabato ovunque si era votato col metodo del caucus (cioè a voto assembleare palese), Obama aveva sempre stracciato Hillary: è un segnale preoccupante. Così i famosi 750 superdelegati - che di fatto sono l'ago della bilancia nella Convention democratica - ci stiano ora seriamente ripensando, dopo che da febbraio a marzo si erano spostati in modo massiccio dalla Clinton a Obama. Si sono diradati, anzi sono quasi scomparsi, gli inviti alla Clinton. ancora poco fa pressanti, perché si ritirasse. Il problema politico che si pone ai superdelegati è duplice: il primo riguarda lo zoccolo duro democratico, il secondo quegli elettori repubblicani che è necessario attrarre per poter vincere la Casa bianca. Sul primo versante, la lotta tra i due si è tanto inasprita da lasciare fratture e veleni difficilmente riassorbibili. Secondo sondaggi recenti, il 40% di chi nelle primarie ha votato per Hillary dice che a novembre non andrà a votare per Obama (in misura minore, avviene anche il viceversa). E come si sa l'astensionismo è il fattore decisivo nelle presidenziali Usa. Dall'altro lato il tema razziale - che già tanto sta pesando - influisce infinitamente meno tra gli attivisti democratici che fin quei si sono espressi, di quanto pesi sull'elettorato generale e sui repubblicani indecisi. Né una candidatura Clinton risolverebbe la questione, poiché la senatrice di Newe York, proprio nel suo ruolo di ex first lady di Bill Clinton, suscita odi scatenati tra i repubblicani ed è capace di spingere al voto quei conservatori cristiani che invece la candidatura di John MacCain inviterebbe a disertare le urne: l'uomo bianco repubblicano è un problema gravissimo anche per lei. Con un'aggravante: per sopravvivere in questa lunga guerra di logoramento, la Clinton ha dovuto sempre più giocare lei stessa (facendo finta di non farlo) sul fattore razziale, ha dovuto stimolare la ‟diffidenza bianca” per il candidato nero, coniugandola per con la diffidenza operaia verso un liberal che esce da Harvard (anche se lei esce da Yale). Con il risultato che la sua campagna sta diventando sempre più respingente. Insomma, il rischio vero per i democratici è che si stanno rinchiudendo all'angolo, in una posizione loose-loose: di accrescere il rischio di perdere qualunque dei due candidati essi scelgano alla fine. Eppur dovranno scegliere.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …