Marco D'Eramo: Primarie Usa 2008. La terza vita di Hillary

09 Giugno 2008
La combattente non si è smentita nemmeno ieri. Il discorso che doveva sancire il suo commiato dalla campagna presidenziale e la sua uscita di scena è diventato la mossa d'apertura di una nuova partita. Hillary Rodham Clinton ha, come sempre, eseguito con cura il tema in classe che le era assegnato, ma con alcune varianti. Doveva riconoscere la propria sconfitta e l'ha ammessa con il necessario cocktail di autoironia, tristezza e insieme baldanza di chi non si volta indietro a rimirare quel che avrebbe potuto essere e non fu. Doveva riconoscere la vittoria di Obama e la ha celebrata con grazia. Doveva garantirgli il proprio appoggio. E lo ha fatto senza porre condizioni (almeno esplicite).
Ma in realtà Hillary Clinton si è esibita in un'acrobazia politica assai più sottile. In primo luogo quando ha sottolineato come persino la sua sconfitta di misura segni una vittoria per le donne, perché «la prossima volta sarà molto più facile per una donna» concorrere alla presidenza negli Stati uniti («se abbiamo sparato cinquanta donne nello spazio, saremo pur capaci di spedire una donna alla Casa bianca»). Così facendo Hillary si è tenuta la porta aperta per una sua candidatura nel 2012, nel caso Obama non fosse eletto. Ma proprio per tenersi aperta questa possibilità, deve mostrare al partito e all'opinione pubblica che né lei né Bill faranno nulla per sabotare la campagna di Obama, anzi faranno di tutto per appoggiarla: se ci fosse pur il minimo dubbio che un suo sabotaggio avrà causato la sconfitta del senatore dell'Illinois, questa sì che sarebbe per lei la definitiva uscita di scena. Da qui l'acrobazia: fare di tutto per appoggiare Obama pur facendo un pensierino alla sua sconfitta. In secondo luogo, Hillary ha fatto la lista degli obiettivi politici che «io e Obama» vogliamo perseguire («assistenza sanitaria per tutti, investimento in energie rinnovabili...»), e di fatto ha posto così le condizioni politiche per il suo appoggio. Condizioni che si tradurranno più nella formazione del gabinetto che in quella del ticket.
Che la sua dichiarazione di fedeltà a Obama sia molto poco passionale, e frutto di un calcolo, lo ha mostrato in due modi. Con il linguaggio corporeo: ogni volta che profferiva il suo indefettibile appoggio a Obama, Hillary si faceva più tesa, più rigida, meno sorridente. E poi le punzecchiature: nel corso della sua campagna Obama ha spesso rinviato spalla a spalla George Bush e Bill Clinton come cattivi presidenti, come autori di errori (al contrario del «grande Ronald Reagan»), ambedue alfieri e testimoni di un passato da cambiare. Ieri Hillary ha ricordato con insistenza che delle ultime dieci elezioni presidenziali i democratici ne hanno vinte solo tre, di cui due con Bill Clinton. Quando perciò gli ha augurato di accedere al ristretto club dei presidenti democratici degli ultimi quarant'anni, l'ironia era più che trasparente.
In ogni caso ieri si è conclusa la terza vita politica di Hillary Rodham Clinton. La prima come moglie del governatore dell'Arkansas e poi presidente degli Stati uniti, la seconda come senatrice di New York, la terza come candidata alla nomination democratica. In questa terza fase Hillary è cresciuta: come oratrice faceva pietà, ora è migliorata, anche se non avrà mai la comunicativa di Bill. È diventata più duttile, dimostrando ancora una volta di essere una che impara svelta, come mostra tutta la sua vita precedente.
Le sue posizioni sono più progressiste di quelle di Obama, pur essendo lei cresciuta all'ombra dei New Democrats, di cui suo marito è stato l'esponente di maggior spicco, quel gruppo di politici - provenienti soprattutto dagli stati del sud - che dal 1985 si aggregano intorno al Democratic Leadership Council (istituzione oggi in profonda crisi), che si erano dati per slogan la «terza via», ma la cui «novità» consisteva nell'accettare in parte l'eredità della deregulation reaganiana, così come qualche anno più tardi, in Gran Bretagna, il New Labour di Tony Blair avrebbe accettato parte del retaggio thatcheriano.
È idea diffusa che - solo poiché era giovane negli anni '60 (è nata nel 1947) - fosse una «sessantottina», ma invece le sue origini sono tenacemente conservatrici. Nata e cresciuta vicino Chicago, in un agiato suburbio politicamente conservatore, Hillary Rhodam frequentò assiduamente la chiesa metodista di cui era chierichetta e in cui s'imbevve della teologia conservatrice di Paul Tillich e Reinhold Niebuhr (poi arruolato in campo liberal), e al liceo divenne un'attivista del partito repubblicano tanto da diventare presidente della sezione giovani repubblicani di Wellesley, e anche Goldwater Girl, sostenitrice del senatore dell'Arizona Barry Goldwater, conosciuto come Mr. Conservative.
Più tardi, laureata a Yale e già avvocato, pensò ad arruolarsi tra i marines, ma ne fu dissuasa dal giovane marine dell'ufficio reclutamento (come se ne trovano in ogni cittadina Usa): almeno così raccontò in un'intervista del 1994, quando però la coppia Clinton aveva seri problemi con gli alti gradi militari per via dello scontro sui gay nell'esercito. Non si sa perciò se quest'intervista corrisponda a verità o servisse solo ad ammorbidire i generali: in ogni caso è sintomatica.Trasferitasi in Arkansas con Bill Clinton che aveva sposato nel 1975, entrò a far parte dello studio Rose Law Firm che curava gli interessi della potente catena di distribuzione Wal Mart nota per le sue pratiche anti-sindacali. Quando poi suo marito divenne governatore dell'Arkansas dal 1979 al 1981 e dal 1983 al 1992, pur da first lady dello stato, Hillary continuò a esercitare nello studio legale (specializzandosi in brevetti e proprietà intellettuale) ed entrò a far parte di vari consigli di amministrazione, tra cui quello di Wal Mart, di Lafarge (la più grande impresa di cemento al mondo), Tbcy (catena di yougurt surgelato).
I suoi otto anni alla Casa bianca sono di solito ricordati per il clamoroso fallimento della riforma della sanità che il marito le aveva affidato, e per la vicenda Monica Levinski. Da quando arrivò a Washington nel 1992, fece subito parte di un gruppo religioso noto come la Fellowship (ma chiamato anche The Family), un'associazione assai riservata, alle soglie della segretezza, che riunisce politici di tutte le tendenze, finanzieri, industriali, diplomatici, ufficiali superiori, in cellule separate sessualmente, e il cui unico evento pubblico è il National Prayer Breakfast che dal 1953 si tiene ogni anno il primo giovedì di febbraio a Washington e a cui quest'anno hanno partecipato, a 500 dollari a testa, 3.400 commensali-preganti. La cellula della Famiglia di cui fa parte la Clinton comprende anche la moglie del consigliere di Bush padre, James Baker e la moglie del politico conservatore Jack Kemp.
La «Famiglia» ha una lunga storia di rapporti con dittatori come l'indonesiano Suharto, il generale brasiliano Costa e Silva, il generale salvadoregno Carlos Eugenio Vides Casanova (condannato per migliaia di torture da un tribunale della Florida), il generale honduregno Alvarez Martinez (lui stesso pastore evangelico). Negli ultimi anni, oratori del Prayer sono stati il re di Giordania, Abdullah II, il cantante Bono, il presidente George W. Bush. Forse la Family sarà di conforto a Hillary Clinton tra una mossa e l'altra della delicatissima partita politica che la aspetta e in cui si gioca a breve la sopravvivenza politica e a lungo termine la realizzabilità delle sue ancora smisurate ambizioni.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …