Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Conto alla rovescia

13 Ottobre 2008
All'angolo tra Beverly Boulevard e Fairfax avenue, proprio accanto al motel in cui alloggio, troneggia un'imponente filiale di Washington Mutual, il colosso bancario che ha dichiarato bancarotta il 25 settembre scorso, in quello che è stato il più grande fallimento di tutta la storia degli Stati uniti. E la prima notizia che leggo sul Los Angeles Times arrivando in California è che il governatore Arnold Schwartzenegger ha scritto al segretario del Tesoro degli Stati uniti, Henry Paulson, per chiedergli un prestito ecezionale di 7 miliardi di dollari per evitare che anche la California dichiari bancarotta: di solito lo stato della California (come molti altri stati dell'Unione) chiede alle banche anticipi sulle entrate fiscali per pagare gli stipendi degli statali (insegnanti, poliziotti...). Ma questa volta, proprio per la stretta del credito, le banche si erano rifiutate di anticipare 7 miliardi di dollari. Dopo questa drammatica missiva, l'emergenza è in parte rientrata, ma la stessa minaccia incombe sulle prossime scadenze, soprattutto dopo i crolli nelle Borse avvenuti ieri.
Il fatto è che la crisi è ovunque. Non solo la crisi finanziaria, ma quella dell'economia reale. Le notizie di venerdì scorso sull'occupazione erano terrificanti: gli Stati uniti hanno perso negli ultimi otto mesi 700.000 posti di lavoro. Sembra poco per una popolazione di 300 milioni di abitanti, ma bisogna sapere che, proprio per tenere il passo con la crescita demografica e mantenere stabile il livello d'occupazione, l'economia americana dovrebbe creare 150.000 posti di lavoro al mese. Vuol dire che negli ultimi mesi sono mancati all'appello non 700.000, bensì 1,6 milioni di posti di lavoro. E questi dati ancora non tengono conto dei licenziamenti nel settore finanziario provocati dal terremoto della settimana scorsa. Ma la stretta è ancora più asfissiante sulle piccole imprese. Chi vuole ingrandire il proprio negozio, o comprare un altro camion per la propria ditta di trasporti vede le sue richieste di credito vagliate con una severità inedita negli Stati uniti, una puntigliosità che ricorda piuttosto quella delle banche italiane.
Con la disoccupazione che aumenta, i salari scendono visto che i disoccupati sono pronti ad accettare retribuzioni più basse pur di lavorare. Nello stesso tempo un'altra stretta (assai più temibile per l'economia americana) si profila sulle carte di credito. In Italia e nell'Europa continentale, in realtà la carta di credito è usata come una sorta di bancomat per gli acquisti, un modo di trasferire denaro dal proprio conto corrente ai negozianti, ristoratori, albergatori: nella stragrande maggioranza dei casi questi fondi sono coperti. invece qui negli Usa (e in Gran Bretagna) la carta di credito serve proprio a comprare a credito. Su questo credito è basata la maggior parte del consumo, non solo per gli acquisti di merci (dalla spesa al supermercato agli elettrodomestici), ma per le vacanze, per le cure dentistiche, e così via. Quindi la crisi colpisce adesso anche l'occupazione nei servizi che gli americani non possono più permettersi.
La crisi sconvolge l'andamento della campagna elettorale. Ha messo in difficoltà la coppia repubblicana John McCain e Sarah Palin. Tanto che sembra una mossa dettata dalla disperazione l'attacco lanciato contro Obama per suoi presunti leami con il gruppo terroristico dei Weathermen che nel 1969 compirono un paio di attentati letali. Ma a quell'epoca Obama aveva otto anni e per la signora Palin sarà molto difficile sostenere seriamente che un bimbo di quell'età fosse un fiancheggiatore di terroristi che avrebbe conosciuto solo 26 anni più tardi, nelle inevitabili frequentazioni incrociate del mondo politico di Chicago. Questi colpi bassi sono un tentativo per distogliere l'attenzione dalla crisi. Come si dice qui, sono «armi di distrazione di massa».
Può darsi (anche se non è certo) che la candidatura della governatrice dell'Alaska Sarah Palin avrebbe avuto un forte impatto in una situazione di normalità economica. Ma tutti i suoi occhietti, le strizzatine, gli ammiccamenti appoggiati alla platea, la sua recitazione istrionica sono armi spuntate per gli spettatori preoccupati dalla fine del mese. Il fatto che tv e giornali spendano ore e pagine intere a dissezionare la sua performance nel dibattito di giovedì scorso (4 commenti sabato sul New York Times, tutta la mattinata domenica sulla Cnn erano consacrati al dialetto campagnolo della Palin), mentre per gli americani nubi scurissime si addensano all'orizzonte, mostra quanto il mondo dei media, come quello della politica, sia ancora sconnesso dal mondo reale. «In ogni caso - mi dice Marc Cooper, editorialista e commentatore politico basato a Los Angeles - il candidato repubblicano John McCain si è privato di ogni probabilità di vittoria quando ha scelto Palin come compagna di candidatura. In primo luogo è diventto per lui impossibile giocare quella che fino ad allora era stata la sua carta più forte: la carta dell'esperienza. Nessuno può sostenere seriamente che Palin sarebbe una presidente più esperta di Barack Obama. In secondo luogo questa scelta getta un'ombra sulla sua capacità di prendere decisioni ponderate».
Per Marc Cooper la campagna è già giocata, il suo esito è già deciso, qualunque esso sia, a meno di un'attacco terroristico (paventato da tutti come la «sorpresa ottobrina di Cheney», l'attuale vicepresidente) o di un crollo del 40% di Wall Street, ipotesi questa che certo oggi non appare più così balzana (a questi timori, nel tinello della sua casa di San Diego, il famoso saggista Mike Davis mi aggiunge quello di un attacco pre-elettorale all'Iran). «Ma a meno di questi due eventi, i giochi sono fatti», dice Cooper, «soprattutto a causa della crisi economica. Tutti gli altri fattori sono già in campo. Già sappiamo che tra i neri ci sarà un'affluenza spettacolare, mai vista nella storia, che potrebbe portare a Barack Obama stati repubblicani come la North Carolina e fargli conquistare la Virginia. Quest'affluenza nera potrebbe essere decisiva in Ohio, dove può controbilanciare la mobiliatazione dei fondamentalisti cristiani che comunque sembrano aver perso la fede nei repubblicani. Già sappiamo che i latinos sono sospettosi nei confronti di un nero come Obama, ma che sono ancora più incazzati con i repubblicani per non aver fatto passare la legge che avrebbe legalizzato almeno una parte dei 12 milioni di immigrati clandestini che oggi vivono negli Stati uniti. McCain era stato uno dei due autori di questa legge (insieme al senatore democratico Ted Kennedy) affossata proprio dal suo partito. Quindi presso gli ispanici McCain deve giocare contro i suoi. Sappiamo anche quello che non sappiamo e che nessuno può sapere, e cioè quale sia il livello reale del razzismo negli Stati uniti, quanti sono davvero gli americani che non voteranno mai Obama perché è nero: questa è una delle grandi incognite dell'elezione.»
Di diverso parere è Allan Hoffenblum, figura di spicco dell'establishment repubblicano in California: «Tutti i media desiderano disperatamente che la partita sia considerata già finita, proprio come facevano durante le primarie, quando Hillary vinceva uno stato dopo l'altro e a ogni vittoria di lei gli opinionisti liberal le gridavano "ritirati che la partita è già finita!". Lo stesso avviene adesso. Ma la partita è lungi dall'essere conclusa. I sondaggi sono molto altalenanti, ora danno una spinta all'uno, ora all'altro. Una buona parte dipende dal prossimo di battito presidenziale (che si terrà stanotte, alle 3 del mattino ora italiana, ndr). E anche sugli ispanici, McCain può fare meglio del previsto, anche se gioca contro il proprio partito che ha preso una posizione gretta e miope sull'argomento. L'arma migliore di McCain è che Obama ha fallito il suo tentativo di superare gli steccati tradizionali tra destra e sinistra e, con tutta la sua enfasi sul 'cambiamento', è tornato a un discorso assai tradizionale, a una visione classicamente liberal del cambiamento. Ora, negli Stati uniti vi sono un sacco di persone che non ne possono più di George Bush e delle sue politiche, ma che non sono affatto pronti a una svolta liberal. In ogni caso sarà la crisi economica il fattore decisivo. È su questo terreno che McCain dovrà convincere gli spettatori nel prossimo dibattito».
In realtà gioca anche un altro fattore, ed è un certo disamoramento da parte dei progresssisti nei confronti del ticket di Barack Obama e del suo vice, il senatore del Delaware Joe Biden. «Il dibattito con Sarah Palin era incredibile, noi eravamo tutti contenti della performance di un candidato, Joe Biden, che ci spiattellava che farà tutto quello che vuole Israele, che procederà al riarmo, che manderà più truppe in Afghanistan, che difende la guerra in Bosnia», mi diceva Mike Davis - sua moglie Alejandra, di origine messicana, è una gran sostenitrice di Obama. «L'unico modo di spiegare il sostegno della sinistra radicale per Obama è una "cospirazione del wishfull thinking", del pretendere che i propri desideri siano realtà, con tutti a convincersi l'un l'altro che Obama è il leader che loro aspettano: ma anche se Obama fosse davvero quel progressista che loro pensano che sia, avrebbe uno spazio di manovra ristrettissimo sia sulla crisi economica sia sulla guerra al terrore; già lo si vede dalle posizioni che prende adesso».
Ma è la prospettiva dopo le elezioni che preoccupa di più Mike Davis: «La nuova amministrazione si troverà di fronte a questi due sviluppi, guerra al terrore (una guerra che vogliono rilanciare con soldi che non abbiamo) e crisi economica che convergono l'una contro l'altra, con la possibiltà che implodano, che si schiantino reciprocamente, o che, al contrario, congiurino verso un esito drammatico. Non è la prima volta che qualcuno tenta di uscire dalla recessione con uno sforzo bellico».

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …