Marco D'Eramo: Presidenziali USA. La vida oltre il deserto - La fatica di essere ispanici in uno stato di frontiera

04 Novembre 2008
Dalla maglietta di questo cinquantenne alto, sulle braccia muscolose fanno capolino grandi tatuaggi blu. Ruben Hernandez è direttore di Latino Perspectives, l'unico magazine in lingua inglese per la popolazione ispanica in questo stato che di latinos ne conta (dati del 2006) un milione 804.000, su 6,2 milioni di abitanti, cioè il 29,2%, mentre in tutti gli Stati uniti sono il 14,8% della popolazione. Certo, l'Arizona è meno ispanica del suo vicino orientale, il New Mexico, lo stato più latino degli Usa, in cui è ispanico il 45% della sua (magra) popolazione. L'Arizona è meno latina anche della sua vicina occidentale, la California (35,9%) o del Texas (35,7%). In compenso è lo stato in cui la popolazione ispanica cresce più rapidamente: + 30,5% nel quinquennio 2000-2005, contro, per esempio il + 9 % del New Mexico.
Il punto essenziale però è che ‟rispetto ai diritti civili degli immigrati, l'Arizona è oggi quel che negli anni '60 era il Mississippi per i diritti civili dei neri”, mi dice Hernandez nella sala riunioni del suo mensile. E cioè lo stato in cui ‟si è creato un clima d'intimidazione, di terrore, sopruso e angherie”, continua Hernandez: ‟Io sono di origine messicana, ma cittadino americano da quattro generazioni. Ma quando la stradale o la polizia mi ferma sull'autostrada, mi chiede il permesso di soggiorno. Una richiesta illegale, bada bene”.
Lo sceriffo della Maricopa County, Joe Arpajo, è diventato il simbolo di queste angherie. ‟Lo sceriffo è un ufficiale eletto, ma una volta eletto è un dittatore all'interno del suo dipartimento, nessuno lo controlla”. Arpajo, che si è autodefinito ‟il poliziotto più tosto del west”, ha messo su una posse di 150 agenti che perlustrano i quartieri ispanici e appena uno ha le luci posteriori dell'auto rotte, gli chiedono lo statuto di immigrato e lo rispediscono a casa. E non c'è solo Arpajo. C'è l'opinione pubblica che lo applaude e gli editorialisti che danno i numeri: in Arizona i clandestini sono l'8% della popolazione, ma costituiscono il 15 % degli arrestati (a presunta dimostrazione di una maggiore propensione al crimine da parte dei clandestini), anche se le stesse statistiche dicono che in California i cittadini nati all'estero costituiscono il 35% dei residenti ma solo il 17% della popolazione carceraria.
Non importa, i clandestini vivono qui nel perpetuo terrore non solo della migra, la polizia di frotiera e i funzionari dell'immigrazione, ma delle innumerevoli posse di privati cittadini che si autonominano pattugliatori del confine e danno la caccia al clandestino con i loro fuoristrada, sul modello del Minuteman project, l'associazione di vigilantes che riprende il nome della milizia che nel '700 combatté contro i britannici. Quest'odio serpeggia ovunque e non riescono a contrastarlo le molteplici organizzazioni a favore di migranti, come i Samaritans, basati a Tucson, che perlustrano il deserto vicino alla frontiera con pattuglie comprendenti almeno un medico e un madrelingua spagnolo, per salvare i clandestini che rischiano la morte per sete, per insolazione e per freddo di notte. In media nel deserto vicino al confine muoiono circa 200 migranti l'anno.
L'odio per gli immigranti è un altro sottoprodotto dell'11 settembre 2001. La portavoce della confederazione sindacale Afl-Cio dell'Arizona, Dana Kennedy, mi dice che prima dell'11 settembre non c'era questa paranoia, ‟sì, se ne parlava, ma quasi con benevolenza, e si diceva che tosano l'erba in giardino, riparano le tubature... Ora - a torto o a ragione - sono considerati colpevoli di tutto”. ‟Per gli statunitensi anglosassoni, dice Hernandez, i messicani possono essere confusi con arabi, è una questione fisica, di sguardo e di pregiudizi, come se l'11 settembre fosse stato commesso da peones entrati negli Usa traversando il deserto di Sonora con l'aiuto dei coyotes (i passatori di clandestini)! Gli immigranti clandestini, gli indocumentados, sono i capri espiatori di qualunque cosa avvenga, ma quest'atteggiamento si estende a tutta la popolazione latina dello stato, anche se gli immigrati rappresentano meno di un terzo del totale”.
Non importa se la stragrande maggioranza degli ispanici sono cittadini americani a tutti gli effetti, e alcuni da parecchie generazioni, come Hernandez, e tra loro vi sono discendenti dall'antica aristocrazia terriera messicana prima che gli Stati uniti conquistassero e annettessero questi territori a metà '800. Chiunque abbia una fisionomia latina parte con un handicap in Arizona.
Attorno al problema degli ispanici aleggia qui una spessa coltre d'ipocrisia, la stessa che avvolge i neri in altri stati. Te ne accorgi dalla piattaforma dei candidati democratici a queste elezioni, quale risulta dai volantini che raccolgo nella sede del partito: ecco Gabrielle Giffords, politica di Tucson, deputata uscente dell'estremo sud est dell'Arizona, che s'impegna a ‟promuovere ricerca e sviluppo per l'energia solare, migliore sanità per i veterani e rafforzamento della sicurezza alla frontiera”; ecco Jeanne Lunn, candidata al parlamento dell'Arizona, che ‟pone immigrazione illegale, istruzione e sviluppo economico in cima alle sue priorità e vuole rendere rapidamente sicura la frontiera dell'Arizona (con il Messico) usando i i più moderni ritrovati tecnologici”.
La governatrice democratica dell'Arizona, Janet Napolitano (di chiara origine italiana), è stata la prima governatrice a chiedere (e ottenere) l'uso della Guardia Nazionale per pattugliare la frontiera e nel 2007 ha varato la legge più severa di tutti gli Usa nei confronti dell'immigrazione illegale. La legge prevede che ogni datore di lavoro debba verificare lo status di ogni dipendente assunto. Chi assume illegali è multato la prima volta, e la seconda gli viene tolta la licenza. La legge nei fatti si è dimostrata inapplicabile, per quanto l'economia dell'Arizona dipende dai clandestini: gli ospedali dovrebbero chiudere per mancanza di infermieri e portantini, le imprese edilizie non avrebbero più muratori. Le città per soli anziani chiuderebbero i battenti visto che si basano su mano d'opera a buon mercato per tutte le mansioni di servizio e manutenzione. A Sun City i residenti non possono avere meno di 55 anni, ma in realtà nelle sue vuote strade assolate, a parte qualche cart a motore per il golf, vedi solo giovani o adulti ispanici che riparano un tetto, tosano un giardino, innaffiano, cambiano un vetro.
Quando chiedo al vicedirettore del Tucson Citizen (vedi il reportage di domenica 13), Mark Kimble, come mai la posizione dei democratici dell'Arizona è così diversa da quella dei democratici a livello nazionale, risponde che ‟loro stanno a migliaia di chilometri dal confine, noi abbiamo 600 km di frontiera. Bisogna fare qualcosa. Ma il muro che vogliono costruire è totalmente irrealizzabile. Te lo vedi a costruire una muraglia di 600 km nel deserto, tra le montagne? Nello stesso tempo bisogna trovare un modo di legalizzare i clandestini. C'è un'ambivalenza di fondo: la stessa gente che dà la caccia ai clandestini, però è ben contenta di pagare poco per la casa: e i prezzi non potrebbero essere così bassi se i muratori non fossero illegali”.
La crisi economica rischia di esacerbare il razzismo anti-immigrati e anti-clandestini. ‟La migrazione è sempre ciclica: quando l'economia tira, fanno venire i messicani a frotte, quando c'è recessione, li sbattono via. Ora li cacceranno”, dice Hernandez. Più cinico il procuratore distrettuale di Tucson, con cui bevo la tradizionale birra del venerdì sera (alle 5) nel patio di un bar, insieme a un gruppo di professionisti: ‟La crisi farà sì che il problema dei clandestini si risolverà da solo, perché non verranno più qui visto che non c'è lavoro”. ‟Ma ci sarà ancor meno lavoro in Messico”, gli risponde Ann, direttrice della pagina editoriale dell'Arizona Star Daily. Ann è sposata a un ingegnere della Motorola e suo figlio segue la carriera accademica in studi di slavistica; per tutta la vita sua mamma voleva visitare New York e ora, per i suoi 70 anni, l'ha accontentata.
Il razzismo anti-ispanico ricorda quello verso i neri, con gli stessi risvolti culturali: come la cultura statunitense è plasmata in modo impressionante dagli apporti neri, dalla musica, al ballo, così la cultura dell'Arizona è impregnata fino al midollo di latinità messicana. Nove radio su dieci sono in spagnolo. Chiedo a Hernandez del suo mensile, che vende 30.000 copie e ha un sito visitato da 50.000 persone: ‟L'imprenditore che possiede Latino Perspectives prima aveva lanciato un settimanale in lingua spagnola, La Voz. Ma poi nel 2000 l'ha venduto, e ci ha fatto una barca di soldi, perché ha capito che il mercato stava cambiando. Ora c'è una borghesia ispanica di lingua inglese. E il nostro è l'unico magazine per latinos in inglese. Il nostro è un pubblico di reddito alto, di istruzione elevata, costituito al 51% da donne e al 49% da uomini”.
Gli chiedo come ne è diventato direttore. ‟Io vengo dalla California, da Los Angeles, ma sono venuto a studiare qui in Arizona dove mi sono laureato in giornalismo. Per anni ho fatto l'inviato in Messico dall'altra parte del confine. Per qualche tempo ho lavorato anche al settimanale alternativo di Phoenix, NewTimes. Poi sono stato in Florida e quattro anni fa mi hanno offerto di dirigere questo magazine”.
Gli chiedo come mai è si è trasferito dalla California in Florida. ‟Per sfuggire alla paura, per non essere ucciso dalle gang. Perché io ero un ganguero, prima di diventare giornalista. E nelle gang la vita è breve”. Si spiegano così i suoi tatuaggi.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia