Marco D'Eramo: Presidenziali USA. Madison è tutta per Obama

04 Novembre 2008
«Martedì sera finalmente ritorno a casa, dopo otto anni di esilio, dopo otto anni in cui mi sono vergognato di essere americano, otto anni di torture, di invasioni ingiustificate, di libertà civili calpestate, di arroganza e dispotismo», mi dice Joel Rogers appena ci sediamo a tavola. Joel è professore di scienze politiche alla Wisconsin University e uno degli esponenti più lucidi della sinistra americana.
L'attesa qui è palpabile, anche se tutti fanno gli scongiuri e incrociano le dita. Questo stato era considerato uno dei «campi di battaglia» in cui si sarebbe decisa la campagna elettorale, uno stato «in bilico». Ma ora tutti i sondaggi danno Barack Obama in netto vantaggio su McCain: Obama al 51-52% e John McCain al 41-44%, a seconda delle rilevazioni. E - soprattutto - danno il candidato democratico sopra la soglia del 50%. Questa soglia è importante perché nel caso di una personalità così esposta al pubblico come Obama, è assai improbabile che dopo 10 mesi di campagna ininterrotta qualcuno possa essere ancora indeciso: è molto più probabile che l'affermata «indecisione» nasconda un'ostilità, quando non un razzismo che non osa rivelarsi in pubblico. Qui viene chiamato «effetto Bradley», dal nome del candidato nero alla carica di governatore della California, Tom Bradley, che nel 1982 perse le elezioni nonostante i sondaggi lo avessero dato sempre in ampio vantaggio. La spiegazione fu proprio l'inconfessato razzismo che non osava rivelarsi ai sondaggisti. Perciò essere sopra il 50% significa vincere anche nel caso tutti gli indecisi ti votino contro.
Ma proprio il razzismo è la grande incognita di queste elezioni, mi dice Matthew Rothschild (niente a che vedere con la famiglia dei banchieri), direttore del mensile The Progressive fondato da Robert Lafollette (1855-1925), uno dei politici più progressisti della storia americana, forse il più ostile all'influenza delle grandi corporations sul parlamento e sul governo di Washington. Se Joel Rogers pensa che martedì sera tornerà a casa, io mi sento a casa quando vengo qui a Madison, dopo stati come Arizona, Nevada, New Mexico: Madison è una piccola cittadina, sull'istmo di tre laghi, con una grande università, piena di giovani. È una cittadina di sinistra, dove vedi solo stickers per Obama, ma non nel senso di San Francisco dove domina l'anticonformismo liberal, pro gay, femminista. Qui l'aria è più da socialdemocrazia nordica: i suoi abitanti, come quelli del Minnesota, sono a stragrande maggioranza di discendenza scandinava, mentre la città industriale dello stato, Milwaukee, sul lago Michigan, è a forte impronta tedesca ed è in pratica un suburbio di Chicago da cui dista solo 120 chilometri.
«Non so perché torni a vedermi, quando l'ultima volta avevo pronosticato una vittoria di John Kerry e mi sbagliavo di grosso», mi dice Matthew Rothschild. «Un mese fa ero molto scettico rispetto alle possibilità di vittoria di Obama. Adesso sono molto più ottimista. Perché nel frattempo sono successe tre cose. La prima è naturalmente la crisi finanziaria, di fronte a cui McCain non sa cosa dire, se non ripetere la vecchia tiritera di deregulation e taglio tasse: quando la banca Lehamn Brothers è fallita, tutte le borse sono crollate, e solo le azioni di Obama sono salite. Il secondo fattore è che Obama ha vinto i tre dibattiti televisivi, ha imparato la lezione e non ha commesso gli errori di Nixon e Al Gore che invece di demolire con calma le scempiaggini che diceva Bush, ridacchiava ironico, così alla fine la gente si è ricordata solo il suo sorrisetto beffardo e non le idiozie di Bush. Il terzo fattore è stata Sarah Palin che si è rivelata molto meno intelligente, meno qualificata e meno informata di quel che ci si aspettava. In ogni caso, candidando la Palin, McCain si è privato del suo argomento più forte: l'esperienza. Nessuno può pretendere che Obama sia meno esperto della Palin». Su questo punto ha un'opinione diversa John Nichols, editorialista del settimanale The Nation e vice direttore del Madison Capital Times, un giornale dalla storia curiosa, che noi del manifesto invidiamo tanto: un piccolo, autorevole quotidiano nato nel 1917, che ancora fruisce della donazione di un benefattore, che gli garantisce l'indipendenza economica: «McCain da un lato e Joe Biden (candidato democratico alla vicepresidenza) dall'altro sono due politici classici, senatori di lungo corso, anziani, tipici animali di Washington», mi dice John Nichols nel bar, il Caffè Ancora, dove lavora tutti i pomeriggi, di fronte alla Cupola del Campidoglio dello stato del Wisconsin: «Invece, da parecchi punti di vista, Obama e Palin hanno storie simili: sono giovani; erano sconosciuti cinque anni fa; non hanno mai ricoperto un incarico a livello nazionale; ambedue si sono fatti un nome andando contro corrente rispetto al proprio partito. Insomma questi due candidati esprimono l'importanza che ha assunto la dimensione mediatica, l'aspetto. Hai contato i settimanali di moda maschile che hanno Obama in copertina? Non come politico, ma come icona "alla moda". Candidando loro due, i due partiti hanno riconosciuto l'importanza della faccia».
Mi chiedo se, più ancora che l'effetto Bradley, non rischi di intervenire «l'effetto Dewey», o «effetto Truman» che dir si voglia: nelle elezioni del 1948, il candidato repubblicano Thomas Dewey era dato nettamente vincitore da tutti i sondaggi, dopo 16 anni di ininterrotto governo democratico. La mattina dopo il voto alcuni giornali uscirono con la vittoria di Dewey Ci ricorda nulla a noi?). Invece vinse a sorpresa Harry Truman, il presidente uscente (insediato nel 1945 per la morte di Franklin Delano Roosevelt). «No, escludo una rimonta alla Truman», dice Rotschild, «McCain è troppo inetto, la sua campagna elettorale sbanda da tutte le parti».
Scongiuri a parte, tutti ormai guardano al dopo vittoria. Rothschild perché, da direttore di un mensile, già chiede pezzi che saranno letti a dicembre, quando l'euforia della vittoria (incrociando le dita) sarà ormai passata: «Il maggior cambiamento che produrrà Obama è quello simbolico: il razzismo è una cicatrice profonda nella storia americana, una ferita di tre secoli. Certo, alcuni neri di sinistra temono che con un presidente nero, diventi difficilissimo far avanzare la causa nera, battersi per le discriminazioni positive, per la bonifica dei ghetti neri: i neri poveri saranno lasciati a se stessi e resi responsabili della propria povertà: "Ma quale razzismo?" gli diranno "se abbiamo votato un presidente nero". Per il resto, è assai probabile che, viste le sue posizioni centriste, Obama guiderà il paese come una combinazione di Clinton e Bush padre. Ma chiuderà Guantanamo e la sua guida dell'impero sarà più scaltra e meno crudele di quella di Bush».
A Nichols chiedo quanto ci metterà la nuova amministrazione a riavviare quello che chiamo «il ciclo Prozac della sinistra», ovvero il ciclo per cui durante la campagna c'è grande entusiasmo, militanza, dopo il voto c'è enorme esultanza per la vittoria, e dopo qualche mese, di fronte all'inadempienza del partito vincitore, il popolo di sinistra è sopraffatto dalla depressione e deve ricorrere a dosi massicce di Prozac.
«Intanto non basta la vittoria di Obama. È necessario che ci sia anche una "maggioranza di governo" alla Camera e al Senato. Per maggioranza di governo, non intendo il 50% più uno, perché nei ranghi democratici ci sono parecchi conservatori più a destra dei repubblicani. Con 50 più uno sei nella situazione Joe Lieberman (il senatore del Connecticut che era stato candidato democratico alla vicepresidenza, ora appoggia McCain e nell'ultima legislatura era l'ago della bilancia perché con lui i democratici avevano la maggioranza di un voto e senza di lui le forze erano alla pari, nel qual caso diventa decisivo il voto del vicepresidente in carica, ossia Dick Cheney). Per esempio i senatori di Nebraska, Virginia e Louisiana sono dei reazionari. Perciò serve una maggioranza di 57-58 senatori (su cento), almeno per passare approvare leggi d riforma. E alla camera, su 435 seggi, serve una maggioranza di 240-245 deputati. Questi due obiettivi sono importantissimi, quasi quanto la vittoria di Obama. Ma per quanto riguarda l'effetto Prozac, ci vorrà di più di qualche mese. Penso che il paese concederà molto tempo a Obama, aspetterà che realizzi una parte delle sue promesse. Sa che il compito è immane e gli farà credito per tutto il 2009. Il credito verrà a scadenza solo nel 2010, quando ci saranno le elezioni di metà mandato (che rinnovano la totalità della Camera e un terzo del Senato). Solo a quel punto, se Obama «non sarà passato alla consegna», come si dice qui, i democratici subiranno una sconfitta pesante. Un po' come successe a Clinton, dopo la sua vittoria del 1992: per tutto il 1993 un sacco di gente di sinistra sperò ancora molto in lui e poi nel 1994 ci fu l'onda di marea repubblicana».
Nichols ha scritto vari libri sul sistema dell'informazione americano. Gli chiedo come giudica la copertura della campagna da parte dei mass media. «È stata pessima. Intanto va premesso che i quotidiani e i grandi network televisivi sono in crisi: hanno ambedue perso lettori e spettatori a vantaggio di Internet. E la recessione economica taglia ancora di più le entrate pubblicitarie. Quindi hanno licenziato, ridotto gli staff: cioè la copertura non è stata al meglio delle loro possibilità. Ma c'è un elemento più profondo. I nostri mass-media non sono fatti per descrivere la politica in termini di contenuti, di programmi, di idee: sono attrezzati solo per riferirne in termini individuali, di storia personale. E invece in questa campagna erano in gioco problemi di fondo. Hillary ha posto un problema di genere, Obama di razza, e McCain ha posto un problema di classe, col suo essere così spudoratamente capitalista, con otto case, la moglie miliardaria. Giornali e notiziari tv sono stati sessisti con Hillary, razzisti Obama, servili rispetto al denaro. Quello che hanno fatto col reverendo Wright è immondo: ma si è mai visto un politico che è ritenuto responsabile delle parole pronunciate dal pastore, o dal prete da cui ascolta messa? Ma Obama è stato perfetto: per tutta la campagna ha sempre agito da presidente, mai da candidato. Perché sa che un candidato nero non potrà mai vincere. Jesse Jackson era un candidato nero. Obama non ha mai reagito agli attacchi con aggressività. Ecco perché questa non è una campagna, è un evento».

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …