Marco D'Eramo: Presidenziali USA. San Francisco, su a sinistra

04 Novembre 2008
Il direttore Tim Redmond, blue jeans, occhiali e capelli grigi annodati a coda di cavallo, mi guida su per le scale della nuova, grandissima sede del San Francisco Bay Guardian (SFBGuardian), uno dei due più autorevoli settimanali alternativi Usa (l'altro è la newyorkese Village Voice) e uno dei più antichi (fu lanciato nel 1966): i free weeklies sono gratuiti e vivono delle entrate pubblicitarie. Poiché si rivolgono a un pubblico urbano, con molti giovani e singles, rappresentano in misura maggiore o minore le voci più indipendenti e più critiche nel panorama della stampa Usa. E come San Francisco è la città più di sinistra degli Stati uniti, così il suo settimanale alternativo è uno dei più progressisti (anche se a suo tempo non consentì ai suoi dipendenti di sindacalizzarsi).
«Eri venuto nella vecchia sede. Questa l'abbiamo comprata sei anni fa». Gli obietto che avrebbe dovuto vendere l'anno scorso perché ora i prezzi stanno scendendo. Dalla finestra si vede un terreno incolto sotto un'autostrada. «Quest'area sarà sviluppata e quindi il valore di questo edificio salirà ancora. Come giornale siamo contro questo progetto speculativo, ma come soggetto economico ne trarremo vantaggi». Il suo ufficio è una vera e propria baraonda: montagne di carte, dossier, foto ingiallite sparse ovunque a nascondere scaffali e sommergere pavimento, sedie, scrivania, schermo del computer («ma io qui trovo tutto, è il mio disordine»).
«La recessione? Certo che ne subiamo gli effetti, come tutta la stampa. Ma meno di altri giornali e di altri settimanali alternativi: quello di Atlanta è fallito perché avevano fatto acquisizioni sbagliate. Noi non siamo espansionisti, e questo ci salva. Abbiamo dovuto fare un po' di licenziamenti, sei, abbiamo ridotto il numero delle pagine: qualche anno fa ogni numero era composto da 140 pagine, ora ne stampiamo circa 80. Ma il problema vero della stampa americana è che non è riuscita a catturare i lettori giovani. Per fortuna noi ce l'abbiamo un pubblico giovane.
Parlavo in una classe di liceo e c'erano 32 adolescenti e quando ho chiesto cosa leggevano, beh qualcuno ci leggeva a noi, qualcuno leggeva il New York Times su Internet ma nessuno, proprio nessuno leggeva il giornale di qui, il San Francisco Chronicle che perde milioni di dollari a settimana ed è in pessime acque. Hanno dovuto fare licenziamenti massicci, ma il colpo più grave per loro è stato Internet. Prima se uno cercava lavoro, doveva comprarsi per forza il Chronicle, dove c'erano le inserzioni delle offerte. Adesso con i siti specializzati trovi tutto in rete. Noi abbiamo circa 200.000 lettori che ci leggono in rete, più o meno quanti ci leggono su carta. Ma il 90% del gettito pubblicitario è ancora su carta. E ci vorrà tempo prima di riequilibrare le entrate. Ma in rete o su carta, o al telefonino, o sull'orologio, ci sarà sempre bisogno di un reporter a tempo pieno che scovi le magagne del potere, scoperchi le reti di corruzione nella polizia, gli appalti truccati. Si parla tanto di giornalismo diffuso: ma non si può fare a meno di giornalisti a tempo pieno. Il giornalismo è la democrazia: è l'opinione pubblica».
«Il settore immobiliare di San Francisco ha risentito relativamente poco della crisi. I prezzi non sono scesi. Perché la città è piccola (solo 740.000 abitanti, più piccola di San Josè che è nella stessa area metropolitana) e c'è sempre nuova gente che viene ad abitare qui, mentre il parco immobiliare è limitato. Poi ci sono molti stranieri che investono in case qui. L'ultimo grattacielo costruito è stato venduto tutto a stranieri a scopo d'investimento o per venirvi a passare tre settimane l'anno. Ma la crisi si fa sentire. Perché se qui i prezzi delle case non scendono, non aumentano nemmeno. E la gente non può più usare la casa come garanzia per nuove ipoteche: questo era il meccanismo con cui non solo pagavano le iscrizioni al college dei figli, ma i piccoli imprenditori si mantenevano a galla ipotecando la casa nei periodi di magra e riscattando l'ipoteca nei momenti di boom.
Queste elezioni sono un referendum sulla crisi e sulle politiche economiche di Bush. Mio fratello dirige un'impresa edile nello stato di New York e le persone con cui lavora sono colletti blu tradizionalisti, di discendenza italiana o irlandese, perciò razzisti, macho, conservatori, quelli che si chiamavano Reagan democrats (l'elettorato popolare democratico che nell'80 si spostò su Ronald Reagan). Ma adesso sono spaventati. Anche mio fratello è terrorizzato per la prima volta in vita sua. Hanno paura non di Osama Bin Laden, non del terrorismo, ma di perdere il lavoro, di perdere la casa, di non poter mandare i figli al college (qui la semplice iscrizione a una buona università costa dai 25.000 ai 45.000 dollari l'anno).
Questa gente dieci anni fa magari s'indignava per l'aborto o il matrimonio dei gay. Ma adesso non gli importa più niente. A causa della crisi (e nella settimana che ci separa dal voto la situazione non può migliorare all'improvviso) non funziona più la guerra delle due culture su cui si è basata l'egemonia repubblicana. E poi è anche un fatto generazionale. Il 70% di chi ha meno di 30 anni è a favore del matrimonio tra gay: loro sono nati e cresciuti in una società in cui i gay sono dappertutto, hanno vicine di casa lesbiche, vedono gay che passeggiano a braccetto per la strada, vedono film con gay.
Fra dieci anni nessuno parlerà più di questo tema. Certo, qui in California c'è il referendum sui gay, ed è molto serrato, anche perché mormoni e chiesa cattolica hanno raccolto in tutta la nazione 25 milioni di dollari per fare campagna qui in California. Ma ci pensi? gente che spende 25 milioni di dollari per impedire a qualcuno di sposarsi».
«Quest'elezione rappresenta un punto di svolta. Certo, diciamocelo, l'America non è un paese post-razziale. Sarebbe bello se fosse così, ma non è vero. Basta ascoltare la campagna di sussurri e insinuazioni contro Obama, sul suo essere segretamente musulmano, sul suo essere in realtà un terrorista. Ma io credo che la crisi peserà più del razzismo. In questo senso l'elezione è un referendum anche sul peso relativo di razza e recessione: quale conta di più? Certo che il messaggio di Obama è un po' vago. Ma comunque ha detto che vuole aumentare le tasse per i redditi superiori a 250.000 dollari l'anno e diminuirle per i redditi minori. E ci vuole coraggio negli Usa per un'affermazione simile: nella politica americana aumentare le tasse è una bestemmia che in tempi normali ti farebbe perdere le elezioni a colpo sicuro. Mia zia vota contro Obama proprio perché vuole tassare i ricchi: «io sono ricca e non lo voto».
Certo, nessuno fa riforme se non ci è costretto. La vera battaglia progressista comincerà quando Obama avrà vinto le elezioni: e io penso che vincerà. C'è un movimento di base che gli ha fatto vincere le primarie e che ora lo sta portando alla Casa bianca. D'altronde non penso che qualcuno a Washington si sveglia la mattina e decide di varare leggi progressiste. La spinta viene da fuori, dal resto del paese, dalla base, dalle città. Credo che con la globalizzazione si tornerà a unità più piccole dello stato nazione, in definitiva a qualcosa come le città-stato. L'Italia e la Francia potranno dissolversi forse nell'Unione europea, ma Parigi resterà Parigi e Roma resterà Roma. Le città sono il motore del progresso. Basta guardare la carta elettorale negli Usa: le città sono tutte democratiche, mentre suburbi, hinterland, banlieues, sono tutti repubblicani. Perché in città sei confrontato con gente diversa da te, di colore diverso, di reddito diverso, la vedi sul tram, per strada, non puoi ignorare la realtà, devi accettare la complessità della tua esistenza, non puoi far finta di pensare, come fanno nei suburbi, che tutti sono bianchi, biondi, pulitini e agiati come te.
Non è un gioco di parole che città è civiltà. Guarda qui a San Francisco: nel paese si discute tanto di un servizio sanitario universale. Noi come città ce l'abbiamo già: chiunque viene qui è coperto. La legge è stata approvata otto mesi fa ma è entrata in vigore da solo due mesi e vi sono già 10.000 iscrizioni. Io non mi definisco americano, preferisco definirmi sanfranciscano».

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …