Paolo Rumiz: La nuova battaglia del Piave. Salvarlo dalla sete di pianura

01 Dicembre 2008
Succedesse in Medio Oriente, in Puglia o Sicilia, pazienza. Ma stavolta la guerra dell’acqua ha raggiunto il posto più inimmaginabile: le Alpi, bastione idrografico d’Europa. Un posto dove "l’oro blu" scende a torrenti, alluvioni, temporali, nevicate, slavine; talmente tanto che le montagne sono state ribattezzate "torri d’acqua". Un affare serio, dunque. Una partita che segna un incrudimento dello scontro per le risorse, e che accade per giunta sul Piave, un posto che di guerre la sa lunga. Accade che la provincia di Belluno - che copre il cuore delle Dolomiti ed è l’unica provincia di montagna del Veneto - s’è stancata di regalare la sua acqua al resto della regione. La festa è finita. Ora i montanari chiedono non solo un compenso adeguato, ma anche decidere quando e in che misura aprire i rubinetti. O almeno sedersi allo stesso tavolo dei padroni dell’acqua - Enel, Regione e Consorzi di bonifica - con un peso maggiore di quello avuto finora. Rivendicazione simbolica? Per niente. Un "team" di avvocati ha spulciato le leggi della regione Veneto, la giurisprudenza nazionale sul demanio idrico, le norme Bassanini sul decentramento e persino la Costituzione, e ora la giunta provinciale ha sparato una delibera unica in Italia, che formalizza il trasferimento al demanio locale dei cinque laghi più importanti: Santa Croce, Corlo, Pieve di Cadore, Alleghe e Ponte Serra. Il presidente della giunta, il battagliero pd Sergio Reolon, ha piantato bei cartelli sulla battigia e - tra gli applausi dei valligiani di destra e sinistra - ha dichiarato la secessione "idrica" da Venezia. Un fatto inaudito per la città serenissima. Ma soprattutto una dichiarazione di guerra al Veneto agricolo-industriale, pilastro del consenso alla giunta Galan. A percorrere la grande valle da Nervesa della Battaglia fin su in Cadore c’è da capirla questa rivolta bellunese. Piove a catinelle, ma il paesaggio è desertico. Il Piave non c’è più, intubato dalle sorgenti in ogni suo minimo affluente. La manutenzione dell’alveo è nulla, salvo interventi dei volontari dell’Associazione Alpini. D’estate i laghi si svuotano, calano anche di due metri al giorno, svelano una valle denudata, sfigurata, ridotta a uno ouadi libico; tagliano le gambe a qualsiasi sviluppo turistico. Come se l’ombra tragica del Vajont da sola non bastasse. Il Veneto non è la Lombardia, che di valli ne ha tante e una disponibilità d’acqua pressoché illimitata. Qui, se si esclude il corso terminale della Brenta, il Piave è l’unica risorsa, e da cinquant’anni la sete di un’intera regione si sfoga su un solo fiume. ‟Una provincia di 200 mila abitanti fornisce due terzi dell’energia elettrica e quasi tutta l’irrigazione a un territorio super-industrializzato di quasi cinque milioni di uomini”, spiega Reolon. Povero fiume. La diga del Vajont ovviamente non produce più, dopo la catastrofe. La celebrano come morta. Ma i metri cubi dello sbarramento assassino sono più vivi che mai e non sono stati cancellati dal computo di quanto si può succhiare dal Piave. Il risultato non è solo un insulto ai defunti, ma una presa in giro dei vivi. Le concessioni di prelievo superano la capacità del fiume. Soprattutto d’estate, quando si pompa dai laghi il doppio della portata del Piave. Il paradosso, brontola il presidente, è che per ridare al greto il suo minimo vitale abbiamo dovuto genufletterci davanti all’Enel e agli agricoltori che considerano quell’acqua come loro. A Belluno, è chiaro, si gioca una battaglia non solo veneta, ma per la dignità della montagna italiana. In Francia e in Germania l’acqua a uso idroelettrico viene sfruttata e rilasciata dopo poche centinaia di metri, così il fiume resta sempre pieno. Qui no. L’acqua imprigionata alle sorgenti riappare solo in pianura. E se cerchi di misurare la portata del Piave non devi seguire il fondovalle dove non c’è quasi niente, ma un dedalo di duecento chilometri di canali, tubi, by-pass e dighe che formano un sistema artificiale tra i più geniali d’Europa, ma tale da non lasciare spazio alla natura. Con un autunno piovoso, il bubbone non è ancora scoppiato. Ma i consorzi di bonifica, che distribuiscono alla campagna veneta l’acqua giù sfruttata dall’Enel, sono già in trincea. Nel suo quartier generale di Montebelluna, dove il Piave supera le ultime montagne, Giuseppe Romano, presidente del consorzio "Brentella" spiega che per lui è indifferente pagare il canone alla regione o alla provincia di Belluno. ‟Il problema nasce se la provincia pretende anche di quantificare il canone e decidere i tempi e la quantità dei prelievi d’acqua. Su questo non ci stiamo”. Il grosso dell’agricoltura veneta funziona ancora col sistema arcaico dell’irrigazione a canali, che è peggiore persino di quello a pioggia, per non parlare dello spreco per coltivazioni "idrovore" come il mais e il kiwi. Le perdite sono quantificabili fra il trenta e il cinquanta per cento; il che significa che basterebbe ammodernare l’agricoltura per ridare al Piave il suo glorioso aspetto di autostrada d’acqua. ‟Stiamo risparmiando e investendo al massimo. La coperta è piccola per tutti, e non può essere lasciata a uno solo. L’acqua è un bene comune che va gestito a livello quanto meno regionale”. Ma nella sua tana piena di libri e sculture in legno, Mauro Corona, lo scrittore-alpinista che vive sulle crode oltre la diga del Vajont, avvisa che lo scontro sarà duro e che stavolta s’impegnerà anche lui nella ‟battaglia sacrosanta dell’acqua”. Brontola che ormai nel fiume ridotto a deserto si sentono ‟i battellieri che si rivoltano nella tomba” e profetizza che il Piave diverrà per l’acqua quello che la Valsusa è stata per l’Alta velocità ferroviaria. In Valtellina, dove la situazione è analoga e il bacino dell’Adda fornisce alla Lombardia quasi la metà della sua potenza idroelettrica, la provincia di Sondrio è riuscita a strappare alla regione trasferimenti per otto milioni l’anno a titolo di compensazione. ‟Una trattativa dura - spiega il presidente, Fiorello Provera, Lega Nord - ma ora l’intesa fra istituzioni è buona”. Ma il problema non si riduce al risarcimento. La partita è il controllo delle acque: di una realtà che non è solo "risorsa" sfruttabile ma "bene" comunitario. E cardine di un’identità territoriale. Succede che con la montagna spopolata e in bolletta, la corsa allo sfruttamento non è affatto finita. Anzi. Spesso i motivi sono apparentemente nobili: messa in sicurezza (leggi imbottigliamento) delle fonti pure, produzione di energia pulita secondo il protocollo di Kyoto. Ma la realtà è che ‟per centomila euro l’anno un Comune povero si venderebbe anche le mutande” ghigna Guglielmo Russino dell’ufficio acque della provincia bellunese, e spiega che persino nel bacino del Piave, il più disidradato e privatizzato d’Europa, si continuano a impiantar centraline idroelettriche fin nei più invisibili ruscelli. E lo stesso accade in Val d’Ossola, la Val Sassina o l’Appennino Tosco-emiliano. Per non parlare del Sud. Un mese e mezzo fa due turisti australiani, scesi dalle montagne dell’Agordino chiesero allarmati alla gente di Belluno ‟quale catastrofe” fosse accaduta attorno al lago del Mis, un bacino idrico defilato rispetto al traffico di fondovalle. Mostrarono foto di un gigantesco canyon di rocce calcinate, totalmente privo di vegetazione, col fondo coperto di ghiaie lunari e appena un rivoletto d’acqua. ‟Nessuna catastrofe” spiegò la gente. Era solo il lago svuotato dalla grande sete della pianura.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …