Marco D'Eramo: Due eredità per Obama

04 Dicembre 2008
Adesso è ufficiale: più di 600.000 iracheni e 5.000 soldati alleati sono morti per sbaglio, per un deprecabile refuso nelle informazioni fornite al presidente George W. Bush dai servizi segreti Usa. Così almeno l'ha raccontata lo stesso Bush in un'intervista alla tv Abc. Ora il presidente uscente rimpiange quell'errore informativo (ma solo quello) e ammette che, quando fu eletto, era «impreparato a combattere una guerra». Un «errore» che ha disintegrato milioni di famiglie, ha spazzato vita persino l'illusione dell'innocenza da milioni di infanzie: ma per Bush il vero rimpianto è che qualcuno ha fatto male i compiti a casa, forse era distratto.
Così Bush si rifiuta di ammettere le due lezioni profonde che pure l'impero americano dovrebbe aver tratto dai suoi due mandati. La prima lezione è che nessun impero può reggersi solo sulla superiorità militare, per quanto schiacciante. Lo sapevano già i romani e lo sapevano i britannici. I primi fecero sempre politica con i propri vassalli (che anch'essi, come gli americani, chiamavano pudicamente «alleati», foederati), da Giugurta ai re dei popoli gallici. E gli inglesi, subite la rivolta dei Sepoys (1857) in India e la sconfitta nella battaglia Isandlwana (1879) da parte degli zulu in Africa, fecero politica nel subcontinente e nell'altro continente, alleandosi con alcune etnie a scapito di altre e usando alcuni gruppi come propria mano militare contro altri gruppi. Nei primi quatttro anni di Bush invece, il ministro della difesa Donald Rumsfeld e il suo mentore, il vicepresidente Dick Cheney, credettero di poter imporre il proprio volere in Iraq e in Afghanistan con la pura forza militare, rifiutando di fare politica, anzi commettendo errori politici incredibili (come l'improvvido scioglimento dell'esercito iracheno che gettò sul lastrico un milione di famiglie). Nel secondo mandato, il nuovo ministro della difesa Robert Gates e il nuovo comandante in capo in Iraq David Petraeus hanno cominciato a fare politica, hanno comprato prima la neutralità e poi l'appoggio di un capotribù sunnita dopo l'altro. E la situazione è migliorata.
La seconda lezione è che nessun impero, per quanto potente, può tutto. La lezione è che ogni impero, anche quello americano, ha i suoi limiti che deve accettare ed entro cui deve imparare a muoversi. Lo si vede dalle fallite «esportazioni di democrazia»
Queste due lezioni sono il legato più importante per il successore Barack Obama, che giurerà tra 49 giorni e che lunedì ha annunciato la sua squadra di politica estera, la cui composizione era già stranota. Le parole di Obama e i nomi dei ministri mostrano che ha appreso appieno la prima lezione, sulla necessità del soft power, termine coniato dal politologo Joseph Nye e dall'ammiraglio William Owens che designa la capacità di suscitare nell'altro il desiderio di ciò che si vuole che desideri, la facoltà d'indurlo ad accettare norme e istituzioni che producono il comportamento desiderato: «Il soft power si fonda sulla seduzione esercitata dalle idee o sulla tendenza a fissare l'ordine del giorno in modo che rispecchi le preferenze altrui». CONTINUA | PAGINA 12
Non che Obama si precluda l'opzione dell'hard power: non per nulla il suo consigliere per la sicurezza nazionale (posto che fu di Henry Kissinger e, di recente, di Condoleeza Rice), il generale James Jones, è un ex comandante in capo della Nato e per di più ex comandante dei marines.
Ma tutti i membri della nuova amministrazione, da Hillary Clinton a Gates a Jones, sono convinti fautori dell'uso del soft power, e della diplomazia come indispensabile complemento (e a volte inevitabile sostituto) dell'azione militare. Nelle sue conferenze, Gates cita sempre la statistica secondo cui ci sono più suonatori nelle bande militari statunitensi di quanto personale civile in missione all'estero ci sia nel Dipartimento di Stato (il ministero degli Esteri di Washington). Perciò l'ascesa di Barack Obama e della sua squadra segna la fine dell'unilateratismo e il seppellimento della «dottrina Bush» (della guerra preventiva). Si badi, il multilateratismo non sgorga da disinteressata generosità: in questa stagione di vacche magre, un approccio multilateralista ha il vantaggio di coinvolgere altre potenze nei costi umani e nelle spese finanziarie delle decisioni comuni.
Meno sicuro è invece che Obama abbia compreso appieno la seconda lezione sui limiti dell'impero. Anzi le personalità stesse dei ministri che ha scelto ci fanno sospettare che la prima lezione sia strumentalizzata per negare la seconda e per seguire l'obiettivo di una restaurazione dell'impero uscito indebolito dalla disastrosa gestione Bush.
Con queste nomine Barack Obama si pone cioè nella linea della più classica tradizione del Council on Foreign Relations, la fucina che ha sfornato il nerbo della diplomazia statunitense, portabandiera del realismo politico. Da questo punto di vista il «cambiamento» di Obama sembra consistere più che altro in un ritorno all'ortodossia pragmatica precedente, dopo gli anni dell'ideologismo neoconservatore.
Ma il vero test per Obama, un test su cui queste nomine ci dicono ancora poco, sarà un altro, e ben più critico, da un punto di dottrina politica: le sue azioni e le sue iniziative dovranno farci capire se la sua politica esterà si muoverà ancora nell'ambito concettuale della «guerra al terrore», o se invece avrà il coraggio di abbandonare quest'idea bizzarra, strumentale e perniciosa che tante vite ha già inutilmente mietuto.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …