Marco D'Eramo: Tehran è sola

26 Giugno 2009
Tehran è sola, si potrebbe dire, citando una famosa frase pronunciata 41 anni fa per Praga. E sola lo è davvero, almeno a misurare le incerte reazioni statunitensi ai drammatici eventi seguiti al voto presidenziale del 12 giugno.
Il problema però è sapere se per le centinaia di migliaia di dimostranti iraniani che in questi giorni scendono in piazza e rischiano la morte, è meglio essere soli o male accompagnati. La loro solitudine emerge dalla discussione che impazza nella blogosfera nella sinistra Usa.
La discussione all'interno della sinistra Usa è stata scatenata dall'intervento del sociologo ed esponente anti-imperialista James Petras, la cui tesi è: «Non c'è elezione che per la Casa bianca rappresenti una posta in gioco, in cui la sconfitta elettorale del candidato pro-Usa non sia denunciata come illegittima dall'intera élite politica e mass-mediatica». Contro questa tesi sì è riversata on line una valanga di interventi, alcuni assai puntuali, che però non basta a smuovere l'equazione semplice: «Mahmoud Ahmadinejad è anti-imperialista, ergo è attaccato dagli imperialisti».
Gli ondeggiamenti della sinistra mondiale nei confronti del regime degli ayatollah non sono recenti, risalgono almeno alla rivoluzione khomeinista di 30 anni fa: non solo Michel Foucault, ma esponenti della sinistra extraparlamentare italiana furono sedotti dal clero islamico, visto il corrotto, brutale regime dello Scia Reza Palhavi che quel clero abbatteva. Non abbiamo imparato nulla dai disastri che ci ha procurato il pernicioso argomento per cui «il nemico del mio nemico è mio amico» (d'altronde gli stessi Usa sono stati colpiti da un fiero nemico dei loro nemici sovietici, e cioè da Osama bin Laden). Ma, a quanto pare, è una convinzione istintiva cui non sfugge neanche il presidente brasiliano Lula da Silva.
Sfugge invece a Petras che proprio un pilastro mediatico dell'imperialismo, il Washington Post, abbia pubblicato un intervento di appoggio ad Ahmadi Nejad. In quest'ottica Washington-centrica, ogni evento è misurato dai suoi effetti sugli Usa. Ma gli Stati uniti hanno saputo convivere con molta grazia a frodi elettorali e colpi di stato di ogni tipo.
In realtà quel che succede in Iran è ben più importante: da qui il paragone con Praga. Bene o male, finora il regime iraniano aveva avuto una sua legittimità democratica, tanto che alla sua ombra si è sviluppata una società civile, quella stessa che ora sta facendo sentire la sua voce contro ogni repressione, e che per ben due volte aveva eletto presidente un esponente dei «riformisti», Khatami. Gli ultimi, innegabili, sfacciatissimi brogli (basti per tutti la documentata analisi fatta circolare da Kaveh Ehsani della De Paul University di Chicago) e la repressione successiva hanno compiuto l'impensabile, fino a un mese fa: qualunque sia l'esito della crisi attuale, hanno spaccato in due il gruppo dirigente clericale uscito dalla rivoluzione del 1979 e hanno delegittimato la «guida suprema», quel Khamenei che si è dimostrato tanto autoritario quanto improvvido. A dimostrazione che anche il portavoce di Allah prende cantonate.
Ma, a contraddire definitivamente Petras, i dimostranti iraniani sono stati lasciati soli proprio dalla Casa bianca e da Barack Obama, che per una volta ha messo il silenziatore al suo sacro fuoco democratico. Ci sono voluti tre giorni perché si dicesse «profondamente turbato» dagli eventi, perché chiedesse alle autorità iraniane di «verificare le irregolarità», dopo aver però lasciato sapere che per lui il candidato dell'opposizione Musavi «non è poi così diverso» dal presidente uscente.
La cautela di Obama si spiega: da un lato vige l'antica (e fallace) idea che la pace la possano firmare solo i guerrafondai (è spesso citato l'esempio di Menachem Beghin, per gli accordi di Camp David con Anwar el Sadat nel 1978, dimenticando però Yitzak Rabin e gli accordi di Oslo). O forse anche l'ipotesi fatta circolare dai dietrologi Usa, secondo cui per Obama sarebbe più facile ottenere concessioni nucleari da un Ahmadi Nejad indebolito dalla repressione, piuttosto che da un Musavi costretto a una maggiore intransigenza diplomatica proprio per non essere trattato da «venduto agli americani». Una specie di baratto tra nucleare e democrazia, insomma. Come i ragazzi di Tian An Men furono sacrificati ai carri armati in nome dell'interscambio commerciale Usa-Cina.
L'altra ragione per cui Obama è così cauto, è che ogni suoi intervento potrebbe rivelarsi un boomerang e indebolire proprio lo schieramento che intenderebbe aiutare. Il sostegno americano è sempre stato letale per i gruppi di opposizione iraniani. (Ecco perché meglio soli che male accompagnati).
Resta l'angosciosa solitudine delle donne coraggiose e dei ragazzi inermi che sfidano la repressione dei pasdaran, le razzie e le spedizioni punitive dei basij, rischiano prigione e condanne durissime, come abbandonati da un'opinione pubblica mondiale in cui improvvisamente nessuno ha più interesse alla liberazione delle donne, alla laicizzazione della politica islamica, alla democrazia di una grande, antica nazione come l'Iran. Forse perché una moderna democrazia islamica è una novità inaudita in Medio Oriente, e per Israele una minaccia ben più letale di qualunque bombetta atomica di un qualunque corrotto e integralista potentato confinante, una minaccia che l'addestratissima Tsahal non è preparata ad affrontare. Il problema è che sappiamo come finì Praga quando fu lasciata sola.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …