‟I nostri emigrati all’estero sono malati di pregiudizi tribali”. Intervista a Nasleem Aslam

‟I nostri emigrati all’estero sono malati di pregiudizi tribali”. Intervista a Nasleem Aslam

‟La comunità musulmana in Europa ha un cuore malato”, osserva lo scrittore anglopakistano Nadeem Aslam, autore del romanzo Mappe per amanti smarriti, in cui si racconta di un delitto d’onore in nome dell’Islam.
‟Il delitto d’onore è una tradizione tribale che trae legittimità dall’Islam. Nelle società islamiche in cui si verificano questi omicidi la gente non ha il coraggio di criticare. Chi prende posizione contro le tradizioni tribali è accusato di criticare l’Islam e di essere blasfemo, chiunque può punirlo persino con la morte. Il delitto d’onore è una tradizione tribale, ma è difficile distinguere le tradizioni tribali dall’Islam. Combattere la violenza è il nostro compito, di intellettuali”.

L’hacker Bin Laden. Colloquio con Kevin Mitnick

L’hacker Bin Laden. Colloquio con Kevin Mitnick

La pirateria informatica è cambiata, diventando un'arma delle nuove mafie e dei terroristi islamici. Parola di un grande ex, Kevin Mitnick, l’hacker più famoso del mondo, adesso pentito.
Negli anni Ottanta e Novanta è riuscito a intrufolarsi nei computer di aziende del calibro di Motorola, Nokia, Fujitsu. Ha rubato circa 20 mila carte di credito e ha usato per anni schede telefoniche illegali per chiamare gratis. È stato il primo hacker a finire nella lista dei criminali più ricercati dall'Fbi. Un'epopea che si è conclusa dietro le sbarre nel 1995, quando intorno a lui, e ai suoi poteri veri e presunti, era montato ormai un alone di leggenda. Adesso è passato dall’altra parte della barricata e nel suo nuovo libro, L'arte dell'intrusione racconta con il ritmo della crime story le prodezze informatiche delle nuove generazioni.
‟Il termine hacker è spesso usato dai media in modo improprio. Hacker, in senso generale, significa una persona molto in gamba con computer o altri terminali tecnologici. Sono quindi definibili hacker anche Steve Wozniak, uno dei fondatori di Apple, o Linus Torvalds, creatore di Linux: gente che non si sogna nemmeno di andarsi a infiltrare nei computer altrui. Nel mio nuovo libro ci sono invece storie di hacker specializzati nella violazione della sicurezza informatica, che cercano di superare le difese altrui. Sono quelli che sarebbe più corretto chiamare "cracker" o "hacker black hat": hacker che violano i illegalmente i computer altrui. Bene, questa gente adesso è molto più in voga rispetto a cinque o dieci anni fa…”.

Da astronauta a scrittore. Intervista a Péter Esterházy

Da astronauta a scrittore. Intervista a Péter Esterházy

Nell’estate del ‘67 Péter Esterházy scoprì che nella vita non sarebbe diventato astronauta ma scrittore. Nel 1967 aveva 17 anni. ‟Mi resi conto all’improvviso che realtà e finzione mi si confondevano, non c’era quasi differenza tra le parole e i fatti, per me una parola era non meno reale della realtà. Non che mi sentissi uno scrittore nato, al contrario. A scuola ero il primo della classe, ma in ogni materia c’era qualcuno più bravo di me, anche in letteratura. Si chiamava Stefan Scheu, faceva sempre i discorsi più belli, immagino che sia assessore alla cultura in qualche piccola città. Insomma scrivere mi creava dei problemi, cosa che può anche essere considerata un buon segno. La prima volta che mi era toccato raccontare una gita scolastica era stato un dramma, dovetti chiedere aiuto a mio padre, che aveva come si dice una buona penna. Quell’estate a scuola ci fu una novità. Per l’ultimo compito in classe prima delle vacanze ci fu data la possibilità di scegliere tra un tema e una storia inventata. Io scelsi la seconda perché il minimo di pagine richieste era cinque, mentre per il tema erano dieci. Ho ancora quel testo - irrimediabilmente mediocre - eppure per me quella storia fu una scoperta. Trattava di un poeta del 19esimo secolo, e tra i personaggi c’era una cuoca, mi ricordo ancora la straordinaria sensazione di potenza che mi dava decidere se sarebbe stata grassa o magra, sciatta, sudata, se avrebbe avuto seni grandi o piccoli. Provai la gioia della creazione, dio si deve sentire un po’ così”.

Alla ricerca della verità. Intervista a Carlo Ginzburg

Alla ricerca della verità. Intervista a Carlo Ginzburg

«Oggi parole come verità o realtà sono diventate per qualcuno impronunciabili a meno che non siano racchiuse tra virgolette scritte o mimate». Estraggo questa frase dal nuovo libro di Carlo Ginzburg Il filo e le tracce, una raccolta di saggi, tanto belli quanto sorprendenti. Belli perché ciascuno di essi si prospetta come un piccolo universo in espansione. A leggerli, viene in mente che le questioni che lo storico pone sono punti essenziali dai quali si può ripartire più ricchi e più consapevoli. Sorprendenti, per la tessitura che vi si intravede, per gli accostamenti, le comparazioni, la capacità di far parlare i libri messi a confronto: un dialogo di Maurice July e i Protocolli dei Savi di Sion, un romanzo medievale e la lettura che ne fa Jean Chapelain alla metà del Seicento, un oscuro critico di Flaubert che illumina, forse involontariamente, l´influenza della fotografia sulla letteratura e viceversa; il modo in cui gli europei arrivarono a scoprire la figura degli sciamani. Fermiamoci qui. Un´erudizione senza noia ci viene incontro. Il filo e le tracce ci pone di fronte a una questione tutt´altro che secondaria: in che modo uno storico racconta ciò che è accaduto? Qualcosa succede, si tratta di capirne solo la rilevanza, l´attendibilità, il grado di verità; oppure bisogna prendere in considerazione circostanze che possono turbare questo equilibrio? Il sottotitolo del libro è Vero, falso finto. Dice Ginzburg: «Sono come tre arance che lo storico tira in aria. Bisogna fare attenzione a non farne cadere nessuna».