Torna a casa Metz. Intervista a Claudio Piersanti
Il protagonista del nuovo romanzo di Claudio Persanti, Il ritorno a casa di Enrico Metz è un avvocato di mezza età che ha amministrato società importanti. Sfiorato da uno scandalo finanziario, lascia Milano e torna a vivere nella sua città natale. Qui, tra le brume di un borgo padano mai nominato scopre che allontanarsi dal proprio passato è più difficile di quel che pensasse. Ma Metz non cede e scivola in un'esistenza sempre piu ritirata. Un'apparente sconfitta delle ambizioni che è insieme riscoperta degli affetti e lento avvicinarsi alla morte.
Distaccarsi dalla vita e averne una seconda. Intervista a Claudio Piersanti
‟Quando lavoravo nelle industrie, in ruoli molto meno importanti di quelli che descrivo nel libro, ho chiesto a diversi industriali: sarebbe possibile, per un uomo di talento, iniziare e sviluppare un grande progetto industriale senza appartenere organicamente in qualche modo al sistema politico-economico dominante (partiti e banche)? L'esempio più banale è il famoso garage in cui due ragazzini hanno fondato la Microsoft. Mi hanno risposto tutti senza esitare: no, non sarebbe assolutamente possibile. L'invasività dei partiti rappresenta il nostro limite maggiore: anziche stimolare talenti li schiaccia, li uniforma, li umilia. Quanti sono stati i veri industriali italiani del dopoguerra? Quattro, cinque, non di più. L'individuo, con i suoi diritti e la sua libertà di agire nel mondo, è il grande assente della nostra cultura.”
‟In un paese consociativo l’individuo è spacciato”. Intervista a Claudio Piersanti
Piersanti parla del suo nuovo romanzo, Il ritorno a casa di Enrico Metz , già vincitore del Campiello, partendo dall’epigrafe (‟Il passato è odioso ed è meglio non ricordarsene… ‟) per arrivare poi ai ‟martiri” di Tangentopoli.
‟In generale non ci sono davvero eroi in Tangentopoli. Penso all’enorme, e ancora ben presente, apparato burocratico parassitario che l’ha creato, e che ancora è vivo e vegeto. Certo ci sono state delle vittime. Non è mai stato possibile svolgere attività industriali vere e proprie se non si appartiene a qualche raggruppamento, se non si ha un referente politico. La nostra cultura respinge gli individui, le loro potenzialità enormi. Il nostro è un paese associativo e consociativo, non si basa sui diritti e sui doveri degli individui. Da Mattei a Gardini c’è un filo sottile che racconta questa storia parallela. So di non essere popolare, ma lo ripeto: un raccomandato che guadagna duecentomila euro a spese del contribuente è eticamente a un livello ancora più basso di un delinquente comune, e gli effetti economici che produce sono di gran lunga più devastanti”.
Il mondo sotto il segno del consenso di Pechino. Intervista a Giovanni Arrighi
All'esistenza del grande casinò dell'economia mondiale Giovanni Arrighi non crede proprio. È uno studioso che ha sempre tenuto alla dimensione storica, ‟processuale”, dei fenomeni sociali e economici. Nel suo ultimo libro, in uscita per Feltrinelli con il titolo Adam Smith a Pechino, lo studioso italiano, docente alla John Hopkins University e direttore del Fernand Braudel Centre, propone una analisi del capitalismo storico tanto affascinante, quanto da discutere. La sua tesi è che il centro dell'economia mondiale si è spostato a Pechino, mentre gli Stati Uniti continuano il loro lento, ma inesorabile declino. Una tesi ‟partigiana”, che discute criticamente a distanza con quanti, come il geografo marxista David Harvey o Naomi Klein, considerano fondamentale dare una sistemazione teorica al ciclone neoliberista, considerato da Arrighi solo una parentesi, a differenza di quanti lo hanno considerato come un modello sociale la cui comprensione aiuterebbe a capire le tendenze nello sviluppo economico capitalistico.