Paolo Rumiz: Mostar e il ponte che non unisce più
04 Novembre 2003
Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle della Neretva si riempì di
silenzio. I cannoni tacquero, muti davanti al ponte vecchio che non c’era
più. Il rimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli dei bosniaci,
che l’avevano costruito quattro secoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano
tirato giù a colpi di granate. L’intera Mostar si fermò. Tutti, intorno,
capirono che qualcosa di terribile era accaduto. Una lacerazione nella
comunità, una ferita non rimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma un
simbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente. Senza di esso, la Bosnia
stessa perdeva la ragione di esistere. Fu allora, nella luce del tramonto, che
si vide una cosa inattesa. La parabola invisibile del vecchio ponte ottomano, la
sua linea perfetta a schiena d’asino, sopravviveva al crollo del manufatto in
pietra. Rifiutava di cadere. Stava lì, sospesa fra i due tronconi aggrappati
alle rocce bianche. La ferocia materiale dell’abbattimento rivelava tutta la
forza della leggenda perduta. Quella per cui l’uomo giusto, secondo i turchi,
raggiunge l’Altrove (l’altro mondo, o semplicemente l’Altro) passando su
una passerella più sottile di un capello e più affilata di un rasoio. Un arco
celeste, purissimo. Il ponte di Mostar era questo, un atto di fede. Un monumento
alla supremazia dell’invisibile. Ma lo Stari Most era anche una grande opera
collettiva. Non fu, come avviene con l’ingegneria d’oggi, l’esecuzione di
un disegno fatto da una mente sola. L’architetto turco Hajruddin, che lo fece,
fu solo il coordinatore di un gruppo di tagliatori di pietre bosniaci che
lavorarono empiricamente, correggendo le soluzioni adottate in corso d’opera e
mescolando procedure orientali e occidentali, venete e ottomane. Nulla fu calato
dall’alto o deciso dall’inizio. Tutto nacque dal cantiere e nel cantiere,
espresso dalla collettività locale. Il suo coinvolgimento nella costruzione fu
tale e durò così a lungo che la cittadina prese il nome dal ponte. Mostar, da
Stari Most, cioè ponte vecchio. Come l’alto grande ponte bosniaco, quello
sulla Drina, anche lo Stari Most era uno straordinario sensore di eventi. Per
sapere storie, bastava sedersi ai suoi bordi e aspettare. Il borbottio del bazar
le faceva arrivare. Sul ponte sapevi le cose in anticipo. Un vecchio venditore
di souvenir, in un magnifico tramonto di settembre, nel 1991, mi disse con una
dolcezza che mi gelò: "Questa è la nostra ultima estate di pace".
Nulla lasciava presagire che il macello in Croazia avrebbe infettato la Bosnia.
Ma lui aveva visto lontano. Sapeva, e accettava il destino della sua gente. Era
quel simbolo, e non il manufatto, che si era voluto colpire. La pietra non
interessava ai generali croati. Il ponte, difatti, non aveva alcun interessa
strategico. Non serviva a portare armi e uomini in prima linea. Esisteva,
semplicemente. Era il luogo della nostalgia, il segno dell’appartenenza e dell’alleanza
tra mondi che si volevano a tutti i costi separare. Molti ricordano, in quei
mesi, quanta ostilità incontrò in alcune gerarchie cattoliche croate, l’idea
che il Papa potesse andare in visita a Sarajevo a rinnovare l’antico segno di
alleanza con l’Islam, e dire che l’Europa senza Bisanzio-Istanbul era monca.
Europa dunque non solo Occidente, ma ponte essa stessa tra le terre del tramonto
e quelle dell’alba. Chissà. Se i Balcani si fossero chiamati "Balkanistan",
forse avremmo capito un po' di più. Oggi ci accorgeremmo che era impossibile
intendere Kabul e Bagdad per il semplice fatto che non avevamo capito la Bosnia,
grande avanguardia di Bisanzio nel cuore dell’Europa. Oggi si parla dell’11
settembre. Fu quella, si dice, l’ora zero del conflitto di civiltà. Ma chi
vide l’abbattimento del ponte, otto anni prima, s’accorge che talvolta la
storia deraglia alla chetichella, senza riflettori. Se satura di significato,
anche una passerella che cade può essere un Grande Inizio esattamente come il
crollo terrificante di una Torre di Babele. A pensarci bene, molto era già
scritto allora, in quella sera in cui una Luna fredda, enorme, sorse dai monti
dell’Erzegovina. La guerra dei Balcani non era affatto l’ultima guerra del
Novecento. Era la prima guerra del terzo millennio. Esprimeva già il potenziale
distruttivo delle tempeste a venire. C’era in essa l’impotenza dell’Europa
di fronte alle crisi internazionali che la riguardavano. C’era la debolezza
dell’Onu e c’era già, tutta, la solitudine americana nel suo ruolo di
poliziotto del mondo. Vedevi anche, con largo anticipo, l’inutilità delle
guerre stellari e delle bombe intelligenti di fronte a conflitti rasoterra dove
i clan conservavano il controllo del territorio e le popolazioni vantavano
capitali di orgoglio e sopportazione capaci di sballare ogni nostra previsione
strategica. La guerra in Bosnia, scatenata col pretesto di reprimere un
fondamentalismo islamico che ancora non esisteva, lungo dal prevenire il
terrorismo, lo svegliava dal suo torpore, lo chiamava in vita. Lo si vide con la
strage di Srebrenica, quando novemila maschi musulmani furono passati per le
armi in due giorni soli, nell’indifferenza del mondo. Dopo quell’abominio
non vi fu alcun attentato, nulla. Ma il mostro si svegliò, mujaheddin e
mercenari suicidi accorsero da Oriente. E l’Europa cominciò a fare
cortocircuito con la Palestina. A Mostar si vide, poi, la bugia della guerra
etnica e religiosa, raccontata come tale anche dai media occidentali, e poi
condannata a svelare miseramente i suoi contenuti affaristici. Si vide l’archetipo
dello scontro tra città e campagna nell’era della globalizzazione. Si vide,
allo stesso modo, quanto rapidamente i conflitti proclamati in nome dell’identità,
anziché proteggere le comunità locali, le sfiancavano, aprendo le porte alla
colonizzazione multinazionale dei territori. Apparve anche la complessità
culturale dell’Oriente, una complessità divenuta incomprensibile e
intollerabile a questo nostro mondo del consumo che banalizza, semplifica e
ragiona solo per grandi flussi e grandi reti. E difatti fu lì, dopo Mostar, con
l’invio delle fortezze volanti sulla Serbia, che anche l’Occidente cominciò
a bombardare i ponti e ad abbattere simboli, svelando la sua incapacità di
governare i territori e condannandosi alla non soluzione delle crisi
internazionali. Non si percepì che in Bosnia cominciava - come si sarebbe visto
di lì a poco da Israele all’Hindukush - un mondo dove l’orrore e l’incanto,
la mansuetudine e la ferocia diventavano inscindibili, due facce della stessa
medaglia. Come il ponte sulla Drina, altro capolavoro turco in Europa, dove il
Nobel Ivo Andric descrive meticolosamente sia l’abominio di un impalamento sia
la dolcezza di una storia d’amore. Mostar era la porta di un mondo altro, dove
il tempo entrava in dimensioni carovaniere. Lì iniziava una ricerca della
lentezza - il sorseggiare del caffè, le trattative al mercato, le preghiere -
che spiazzava noi divorati dalla fretta. Lì cominciavano i popoli magari privi
di tutto ma padroni del loro tempo, risorsa sempre più introvabile nello
stressato Occidente. "Il tempo è dalla nostra parte", dicevano
tranquilli gli albanesi kosovari sotto i lacrimogeni del serbo Milosevic.
Avevano ragione. La loro lentezza ha sgominato l’adrenalina della polizia
jugoslava. Oggi quella terra è sempre più loro. E Milosevic è in galera all’Aja.
Così gli americani: avranno anche vinto la loro Blitz Krieg a Baghdad, ma i
tempi lunghi degli iracheni li mandano fuori di testa. Ripensando a quel crollo
col senno di poi, vedi che il conflitto di civiltà nacque allora, e non fu uno
scontro fra cristianesimo e Islam. Non fu nemmeno una resa dei conti fra
democrazia dell’Ovest e assolutismo dell’Est, moscovita o ottomano che
fosse. Fu l’aggressione della modernità contro un mondo che si ostinava a
credere nell’invisibile, la rabbia di una civiltà senza più miti e senza
più fede contro un Oriente che condensava troppi simboli. Per chi crede nei
numeri c’è anche un’inversione di date. La storia non cominciò l’11/9,
ma il 9/11. Una data, la seconda, che ha suonato due volte nel cielo d’Europa.
Prima che a Mostar nel '93, a Berlino nell’89, con la caduta del Muro. L’evento
che sembrò liberare i popoli e poi liberò il demone della guerra. Oggi il
ponte è ricostruito. L’hanno inaugurato pochi mesi fa. I ragazzi di Mostar
hanno fatto festa tuffandosi dalle rocce nelle pozze verdi della Neretva, come
facevano da secoli. Ma l’anima del ponte non c’è più. Abbiamo un bel
manufatto, espresso dai benevoli finanziatori della Banca Mondiale, da potenze
straniere per le quali la Bosnia - come oggi l’Iraq - è un mercato dove
ritagliarsi uno spazio di ricostruzione. Come spiega Gilles Péqueux, che ne
avviò i lavori prima di dimettersi in polemica con sponsor (i quali a suo dire
non garantivano l’etica del progetto), il ponte nuovo non è più quello di
allora. Esso non nasce dall’opera e dalla fede della collettività locale ma
da una squadra di tagliapietre turchi, preferiti a quelli locali per ragioni di
costi. Non nasce dalla riconciliazione (la città è ancora sconciamente divisa)
ma vuole calarla dall’alto su un lutto non ancora elaborato. Così oggi si
rischia un innesto incompatibile, a forte rischio di crisi di rigetto. "La
sola cosa che interessava ai finanziatori era l’inaugurazione - lamenta l’architetto
francese succeduto al turco Hajruddin - l’idea era quella di fare più in
fretta possibile e poi andare via". Il ponte di oggi non è più un figlio
di Mostar. Non nasce più dall’incontro dei due mondi.
Paolo Rumiz
Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …