Fabrizio Tonello: Presidenziali. Un dibattito da fantamondo

06 Ottobre 2004
E così John Kerry ce l'ha fatta. Non a "vincere" il dibattito, tema privo di senso a cui i giornalisti americani sono particolarmente affezionati, ma semplicemente a evitare le trappole di un formato inadatto alla discussione e di mass media diffidenti verso di lui. Kerry non è stato troppo "professorale", né "noioso", né "saccente": tutti presunti difetti che condivide con Al Gore e che, in una campagna presidenziale negli Stati uniti, sono diventati handicap quasi insuperabili. La televisione ha imposto un modo di condurre i dibattiti che ha l'apparenza della discussione politica ma si presta, in realtà, soltanto agli scambi di slogan, alle battute fulminanti preparate in casa dai consulenti. In questo, storicamente i repubblicani sono più bravi, come Al Gore imparò a sue spese nel 2000. Il risultato del dominio della televisione sulla politica americana, come rileva Arthur Miller in un delizioso libretto su recitazione e politica, uscito qualche settimana fa, è il "dissolvimento della linea di confine tra realtà e fantasia", la creazione di un fantamondo in cui George Bush può sostenere che gli Stati uniti sono più sicuri oggi di quanto lo fossero prima dell'invasione dell'Iraq. Un mondo in cui la retorica militarista non fa che crescere, in una gara dei due candidati a chi si mostra più orgoglioso di essere americano e indifferente a ciò che succede nel resto del pianeta.
Kerry è ovviamente più multilateralista di Bush, ma anche lui è stato costretto ad accettare l'impostazione aggressiva verso Iran e Corea del nord: dal dibattito politico è scomparsa la memoria del fatto che per mezzo secolo gli Stati uniti hanno dovuto convivere con l'Unione sovietica, che non solo disponeva di reali armi nucleari, ma anche degli strumenti per lanciarle su Washington, al contrario di Iran e Corea che pasticciano con l'uranio arricchito.
Nel fantamondo del dibattito, comunque, Kerry è apparso ben preparato e non ha fatto nulla che potesse scoraggiare gli elettori incerti, o disgustare i suoi sostenitori. Questo è estremamente importante, perché le elezioni del 2 novembre saranno vinte da chi riuscirà meglio a mobilitare i suoi, non da chi andrà a caccia di voti "centristi", specie ormai estinta in un'America straordinariamente polarizzata.
Kerry doveva consolidare il sostegno dell'elettorato tradizionalmente democratico apparendo come un leader abbastanza credibile da giustificare la fatica di andare a votare. Sembra che ci sia riuscito e questo è il meglio che possa fare anche nei prossimi due dibattiti.
Salvo sorprese sul fronte di Bin Laden, brogli elettorali, o probabilissime controversie legali che potrebbero nuovamente finire alla Corte Suprema, Kerry ha oggi discrete probabilità di vincere perché gli stati in cui vinse Al Gore nel 2000 sembrano restare nel campo democratico. Kerry ha consolidato la sua base nel nordest, in California, Oregon e Illinois; è alla pari con Bush, o in vantaggio, in stati chiave come Pennsylvania e Minnesota, mentre rimane in corsa in stati come la Florida che, da soli, sono in grado di far pendere la bilancia da una parte o dall'altra. Che su scala nazionale i sondaggi diano i due candidati alla pari, o Bush in testa, non significa nulla: sono i risultati stato per stato che contano.Ogni ottimismo sarebbe a questo punto fuori luogo: Bush è forte in Wisconsin (uno stato che andò a Gore nel 2000) e in Ohio (uno stato che i democratici speravano di conquistare). La sua base nel Sud e nelle praterie è a prova di bomba (dal Wyoming a Texas raccoglie circa il 60% dei consensi). I repubblicani hanno una tradizione di efficacia nell'ultimo mese di campagna elettorale: nel 1976, James Baker riuscì quasi a far vincere Gerald Ford, di cui si diceva che non riuscisse a camminare e masticare chewing-gum nello stesso tempo, contro Jimmy Carter. Quattro anni dopo, Reagan recuperò uno svantaggio di 12 punti nei sondaggi e vinse trionfalmente contro lo stesso Carter.
Il dibattito ci ha però detto che Kerry è capace di non fare passi falsi sul terreno preferito del suo avversario: la politica estera e la guerra al terrorismo. Se nel secondo round, tra una settimana, riuscirà a mettere in luce il catastrofico fallimento di Bush in economia, l'impoverimento di larga parte della popolazione, l'aumento a 45 milioni degli americani privi di assistenza sanitaria, quelle fasce numerose di americani bianchi che considerano i democratici con diffidenza potrebbero votare per lui. Kerry non può vincere se non convince gli operai maschi che non è un miliardario, un amico delle donne e dei neri, un campione dell'immoralità di Hollywood. Se ci riuscirà, nonostante gli spot pubblicitari dei repubblicani che lo mostrano mentre fa il surf, forse l'incubo di Gorge W. Bush alla Casa Bianca per altri quattro anni potrebbe svanire.

Fabrizio Tonello

Fabrizio Tonello (1951) insegna Scienza dell'Opinione Pubblica presso l'università di Padova. Ha insegnato anche nel Dipartimento di Scienze della Comunicazione presso l'università di Bologna e nella Scuola Internazionale Superiore di …