Guido Rampoldi: Afghanistan. Il prezzo di una guerra

15 Luglio 2009
Da ieri sappiamo definitivamente che il contingente italiano in Afghanistan opera dentro una guerra guerreggiata, e nell’unico modo in cui è saggio e dignitoso stare, oggi, dentro quel conflitto: combattendo. Portare cibo agli affamati, costruire scuole, rimettere in sesto ospedali, curare gli ammalati: nella missione c’è anche questo.
Ma adesso, e nel futuro prossimo, il compito primario di quei soldati è la faccenda orrenda e talvolta necessaria che consiste nello sparare al bersaglio umano. Piaccia o no, lo stato dell’arte è questo.
Rese avvezze a questi lutti da un diverso passato, altre nazioni possono accettare la morte dei propri figli con la flemma dimostrata la scorsa settimana dall’opinione pubblica britannica di fronte alle bare di otto militari caduti nel tempo-record di 24 ore, sventura che laggiù non ha indebolito il consenso, tuttora maggioritario, alla missione in Afghanistan. Per fortuna o per sfortuna, in Italia i morti pesano molto di più. Ciascuno di loro ci costringe a riflettere sulle ragioni complicate per le quali mandiamo quei tremila italiani a rischiare la pelle, se ne valga la pena, se non sia troppo facile rispondere, dalle nostre comode poltrone, che sì, è giusto restare in Afghanistan. Interrogarsi reso più acre dalla consapevolezza che la scommessa afgana ha discrete probabilità di risultare perdente.
Eppure quella scommessa tuttora è l’unica possibile, non fosse altro perché l’alternativa (il ritiro degli occidentali) comporterebbe prezzi spaventosi. Per l’Afghanistan, che ri-collasserebbe nell’anarchia militare. Per la stabilità dell’area, la miscela più instabile al mondo di tecnologia nucleare, terrrorismo e nazionalismo a base religiosa. Per l’Alleanza atlantica, la cui residua credibilità svanirebbe. E, perché dimenticarle?, per le ragazze afgane, la cui unica speranza di liberazione coincide con il pieno successo della Nato. Se questa è la posta, si dovrà convenire che la scommessa è non soltanto giusta: è obbligata.
Tutto questo non deve comportare un’adesione acritica ad una missione che ha mostrato soprattutto i limiti dell’alleanza occidentale, un singolare assemblaggio dei più diversi stili di combattimento, eternamente in bilico tra la sommarietà brutale degli uni e le renitenze tortuose degli altri. Ma non si può negare che la sparizione dell’amministrazione Bush, e dei suoi uomini in Afghanistan, sostituiti da Obama nel modo più sbrigativo, abbia comportato un salto di qualità che fa ben sperare. Già il fatto che il nuovo comandante in capo delle forze americane indichi come assoluta priorità l’evitare i "danni collaterali", cioè le stragi di civili, segnala un cambiamento significativo in un vertice che fino a ieri nutriva una fiducia cieca nella guerra aerea e nello strumento militare. Ma soprattutto, per la prima volta si intravede una strategia coerente. Che abbia successo, è un altro discorso.
Questa strategia passa per un aumento degli uomini (i quindicimila soldati inviati da Obama) e per una prova di forza, la grande offensiva lanciata dalla Nato nel sud. Sembra la più classica delle escalation, e nei fatti potrebbe diventarlo: ma se le cose andassero come spera Washington, gli effetti sarebbero tali da permettere, col tempo, un progressivo disimpegno occidentale.
Parte rilevante dei quindicimila militari americani è destinata ad addestrare le unità dell’esercito afgano, una forza armata che comincia ad acquistare fiducia in se stessa e nella propria missione. Che i suoi quadri provengano per il 60% dall’esercito del regime comunista schiantato nel 1991 dai mujaheddin e dagli americani, è uno dei tanti paradossi di una storia dai risvolti sempre sorprendenti. Quel che conta è che l’afgano medio, spesso rapinato dai poliziotti e taglieggiato dagli impiegati pubblici, finalmente comincia a trovare nell’esercito un’istituzione in cui riconoscersi e riconoscere lo Stato.
Ma nell’immediato, quel che preme agli occidentali è il successo dell’offensiva nel sud. Se la Nato riuscisse a ridimensionare la presenza dei Taliban nelle regioni dei pashtun, l’etnia maggioritaria, il vantaggio sarebbe doppio. In primo luogo i pashtun potrebbero partecipare alle elezioni presidenziali del 20 agosto, cui gli occidentali attribuiscono un’importanza cruciale. Se fossero davvero libere e corrette, come non sono state le precedenti, il nuovo presidente afgano avrebbe la legittimità e la credibilità che mancano a Karzai, di fatto insediato da Washington (peraltro proprio Karzai potrebbe rivincere le elezioni, in virtù dell’astuta rete di alleanze tribali che ha tessuto). E in forza del mandato nazionale, il capo dello Stato potrebbe finalmente cominciare a ripulire le amministrazioni statali dai lestofanti che vi si annidano. Inoltre, i successi militari della Nato potrebbero spezzare il nucleo del movimento Taliban, nel cui interno una piccola fazione pragmatica è favorevole alla trattativa con Kabul. O forse era, perché alcuni oculati omicidi (a Quetta) potrebbero averla liquidata.
Quel che infatti è successo è che alla strategia di Obama il vertice dei Taliban, il cosidetto "consiglio (shura) di Quetta", ha risposto con un contro-piano. Ricomposta la frattura che avevano prodotto i servizi segreti pachistani con un lungo lavorio, il consiglio ha deciso anch’esso un’escalation. Per fare fallire tanto l’offensiva Nato quanto le elezioni presidenziali, ha aumentato il numero dei propri miliziani, inviandone dal Pakistan o assoldandone in Afghanistan con ingaggi part-time, tanto lauti da risultare irresistibili per la gioventù disoccupata. E ha cominciato a operare anche nel nord, reclutando tra le comunità pashtun maltrattate da tagichi e uzbechi. Se ai Taliban riuscisse di etnicizzare il conflitto, l’Afgfhanistan sparirebbe dalle mappe.
Se a tutto questo si aggiungono le indecisioni delle forze armate pachistane, incerte se considerare gli Usa un ingombrante alleato oppure un subdolo avversario che le vuole spossessare delle bombe atomiche, si potrebbe concludere che una complessità così caotica sia irrisolvibile. O comunque, che la Nato non possa riuscire da sola. Occorrerà il contributo dei Paesi dell’area, però riluttanti. E - perché non sollecitarlo? - dei Paesi, delle organizzazioni internazionali e degli opinion-maker che si richiamano all’islam. Se il sodalizio Taliban-al Qaeda esprime i più pericolosi diffamatori dell’islam, come si afferma, il cosiddetto mondo islamico ha il dovere di reagire. Dimostri di non essere una categoria vuota. Mandi in Afghanistan le sue Brigate internazionali. Trovi il coraggio di essere se stesso e di difendere, davvero, una propria identità. Si mobiliti. Combatta sul serio questa battaglia, non a parole ma nei fatti. Oppure taccia, e si rassegni ad essere considerato una finzione, una vacuità, un’ipocrisia.

Guido Rampoldi

Guido Rampoldi è giornalista e inviato speciale del quotidiano “la Repubblica”. Esperto di Medio Oriente e mondo islamico, nel 2007 ha vinto il premio Barzini per l’inviato speciale. Ha scritto …