Miguel Benasayag riprende la celebre diagnosi formulata dodici anni fa con L’epoca delle passioni tristi. La approfondisce, la radicalizza, ma ne fa anche un osservatorio da cui guardare al futuro con forza e speranze inedite. Benasayag descrive un paesaggio sociale devastato dal neoliberismo, dominato dall’individualismo sfrenato, dal mito della prestazione illimitata, dalla competizione senza quartiere. Tutto questo, ci spiega, si traduce in un profondo dolore individuale e in una radicale impotenza collettiva. Siamo vittime di questo malessere, e allo stesso tempo non ce ne rendiamo conto. Un intero mondo costruisce sistematicamente la nostra solitudine, e noi scambiamo questa violenta espropriazione per una perenne inadeguatezza individuale. Di fronte a questo panorama, da un lato Benasayag denuncia la collusione di tutti quei saperi che dovrebbero aiutarci ad affrontare questo oceano di sofferenza individuale e collettiva. Denuncia per esempio la psicologia cognitivista, che rinuncia a interrogare il senso del nostro dolore per promuovere il semplice riadattamento all’economia della prestazione. Ma denuncia anche la psicoanalisi più blasonata, che riconduce la sofferenza umana a una matrice soggettiva e abbandona così il terreno della critica sociale e della proposta politica. Dall’altro lato, Benasayag ci insegna a leggere in filigrana questo scenario di distruzione per valorizzarne le potenzialità inespresse. E, soprattutto, per mostrarci che quelle potenzialità sono alla portata di chiunque di noi. Se le catene del neoliberismo inchiodano ciascuno al proprio posto, Benasayag ci spiega come trasformare quelle catene in legami interpersonali. Se l’individualismo ci divide, Benasayag ci spiega come fare di quella separazione ciò che ci rende prossimi e necessari gli uni agli altri. I vecchi rapporti di potere diventano così il terreno di una nuova comunità di esperienze. E l’epoca delle passioni tristi si rivela come il tempo della creazione condivisa.
“La postmodernità chiama intelligenza la capacità di disintegrarsi quanto basta per potersi conformare all’esoscheletro di un’impresa. Risulta intelligente chi è capace di giocare a nascondino con se stesso fino al punto di perdersi.”