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“Il parlare, e molto più lo scrivere di se stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di se stesso”

È la primavera del 1790 quando Vittorio Alfieri inizia a scrivere la Vita. Ha poco più di quarant’anni, ha già composto le tragedie e, soprattutto, sta sperimentando l’amara delusione della Rivoluzione francese, degenerata in violenza sotto i suoi stessi occhi. Vita segna per lui il culmine di un percorso di autoconoscenza, avviato nelle pagine di un diario giovanile e proseguito in generi letterari diversi: è una ricerca della propria identità nel metaforico specchio della mente, prendendo le distanze dal sé e creando un proprio personaggio. Così facendo l’autore riesce nel mirabile intento di estraniarsi dalla materia trattata per farla decantare, ove necessario, nel filtro dell’ironia. Come scrive Carla Forno, “Alfieri non intende tracciare un autoritratto fedele di sé. Traccia, all’opposto, un ritratto in divenire, che rifugge dalla confessione dell’inconfessabile. Anche per questo, nella Vita, le omissioni sono spesso rivelatrici, i silenzi eloquenti”. Questo è dunque molti libri in uno: le memorie dell’infanzia e le avventure della giovinezza, gli amori, la riflessione politica e infine quella poetica, che trasformano quest’opera nell’unico, autentico romanzo del nostro Settecento.

 

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