Bernardo Provenzano rappresenta l’ultimo padrino del Novecento. La sua cattura, dunque, si presta a una radiografia conclusiva di ciò che è stata la mafia in Italia e in Sicilia negli ultimi cinquant’anni. La caccia al padrino di Corleone, raccontata in presa diretta da Pietro Grasso, può fungere (oltre che da emozionante cronaca di una storica operazione di contrasto a Cosa nostra) da ‟pretesto” per riaggiornare le famose ‟lezioni di mafia” a suo tempo scritte da Giovanni Falcone. L’intervista a Grasso affronta i temi più ‟curiosi” che appassionano l’opinione pubblica: lo stile di vita di un boss che tutti immaginano come un Re Mida e invece vive in una masseria e si nutre di miele e cicoria; la capacità di ‟governare” una regione intera (e forse di più) da un buco medievale del corleonese servendosi di un ancestrale sistema di comunicazione, quello dei ‟pizzini” scritti a fatica da un uomo che ‟ha la seconda elementare non finita”. Il ‟sistema Provenzano” era una rete non soltanto criminale ma perfettamente inserita in quella ‟borghesia mafiosa” che offre personale alle professioni, all’imprenditoria, alla politica. Interessante il quadro che le indagini offrono sulle scelte operate dal boss per inaugurare la stagione della ‟mafia invisibile”, dopo la sconfitta della strategia stragista di Riina e della cupola corleonese. I ‟pizzini” di Provenzano offrono uno spaccato antropologico interessantissimo del ‟provenzanismo”: il rapporto con Cosa nostra, con gli altri capi, con il mondo esterno, con la famiglia di sangue e con la famiglia mafiosa, con la moglie e i figli. Il rapporto con la politica e con il mondo degli imprenditori: il pizzo, il ‟governo” degli affari, gli appalti. E, infine, come contraltare alla mafia, uno sguardo allo schieramento opposto: Palermo e il suo ventre molle, l’appello inascoltato di Grasso a non candidare inquisiti o sospettati, il palazzo di giustizia, il passato e il presente, gli errori dell’Antimafia, le disattenzioni dei governi e della politica.